Parafrasando le formiche di Gino e Michele potremmo dire che anche i triestini nel loro piccolo… perché al fondo è accaduto questo. Dopo un mese di troupe e inviati precettati all’ingresso del porto o nel salotto di piazza Unità a indagare i motivi che facevano del capoluogo la capitale italiana della rivolta, dopo la visita di Enrico Montesano e le capriole del leader dei portuali, Stefano Puzzer, sino alle uscite dell’ex pugile forzanovista, ecco dopo l’ambaradan che ha dipinto la città come un ritrovo di irriducibili, due cittadini hanno deciso che poteva bastare e con poche frasi, semplici come conviene in questi casi, hanno restituito a Trieste un’immagine diversa, che poi sarebbe la sua.

L’appello a Trieste

Mitja Gialuz, giurista in “prestito” all’ateneo genovese è il presidente della Barcolana, la più frequentata regata al mondo, l’avvocata Tiziana Benussi presiede la Fondazione della Cassa di Risparmio locale. In un pugno di ore il loro “Appello a Trieste” sfruttando i canali social o le tradizionali mail ha raccolto quasi 25mila firme in un passaparola che ha varcato il Carso e mobilitato un bel numero di triestini emigrati.

Nel caso mio l’invito a sottoscrivere mi è arrivato da lassù, e insieme da amici e conoscenti sparsi nella penisola e pure dall’impensabile Pechino, a conferma che la misura colma doveva esserlo per davvero. Perché questo è un dato della città che durante i giorni della protesta in pochi hanno curato.

Terra di confine

Quella è una terra di confine in ogni senso. Non facile a entusiasmi improvvisati nel senso che le passioni – e molte ne ha conosciute – tendono a conoscere una loro genesi e lenta maturazione. Non sono fiammate che bruciano e si spengono in mezzo mese. Forse a tenerne conto, la stessa ribellione di quella parte comunque minoritaria dei lavoratori del porto avrebbe consentito una lettura meno impigrita.

L’altra virtù del luogo è una certa dose di tolleranza verso fughe dalla logica vissute come screzi di un mondo complicato, ma anche libero di esprimersi, in questo coltivando una specifica laicità frutto, credo, del suo retaggio misto e cosmopolita. Poi però, quando la soglia si supera e i conti si è chiamati a farli non con la “beffa” ma col “danno”, la reazione può scattare improvvisa e senza sforzi riesce a reclutare un buon pezzo di quella maggioranza propensa al quieto stare, ma anche no. Precisamente la scena consumata ieri.

L’ora della responsabilità

Riportano le cronache che uno dei portuali, anche lui non vaccinato – non uno della prima fila, ma pur sempre aderente ai blocchi delle settimane scorse – si trova ora nella terapia pre-intensiva all’ospedale di Cattinara, lì supportato da ossigeno e casco. Interpellato dalla stampa del posto ha dichiarato di avere avuto paura e che “il virus è pericoloso”.

Gli auguro quanto prima di uscire da questa brutta avventura e forse detto da lui il monito per qualche suo compagno risulterà più efficace rispetto ai dotti scienziati Fauci, Galli e Burioni. Certo, a colpire è la legge del contrappasso che transita in pochi giorni dal moto della piazza, “non molleremo mai”, alla umanissima richiesta di aiuto rivolta ai soli in grado di offrirla, medici e infermieri plurivaccinati.

Scrivono i promotori dell’appello: «Trieste è la capitale italiana della scienza e della scienza si fida (…). È venuta l’ora della responsabilità. Di tutti». Magari quell’ora non sarà scattata proprio per tutti, ma la risposta pronta di molti è il modo per convincere i più che questo tempo non consente deroghe e obbliga a stare coi piedi ben piantati in una realtà che non è fatta di telecamere e precarie notorietà, ma di dolore, fatica e soprattutto speranza. Anche per questo, chi può firmi!   

 

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