Trump e lo stile paranoide, gli scrittori lo hanno previsto

«La vita politica americana ha fatto spesso da arena per tante menti insolitamente arrabbiate. Oggi questo è evidentissimo nell’estrema destra». Non sono parole riferite a Donald Trump o ai nostri giorni, ma risalgono al 1964. Sono l’inizio di un noto saggio dello storico Richard Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana (Adelphi). Di fronte alla deriva autoritaria che ha preso la presidenza Trump e alla radicalizzazione estrema della società, agli episodi di violenza eversiva come l’assalto a Capitol Hill, è possibile pensare di essere di fronte a qualcosa di inedito nella storia degli Stati Uniti. Ma non è così. La “democrazia più antica del mondo” è percorsa da umori autoritari, antidemocratici, sciovinisti, razzisti, che risalgono indietro nel tempo. Non solo alla presidenza Nixon o alla “caccia alle streghe” maccartista degli anni ’50 del secolo scorso. È una presenza costante, fin dagli esordi degli Stati Uniti d’America. Come racconta Hofstadter, già dalla fine del Settecento queste forze si manifestano. Con una caratteristica che le accomunerà nei secoli: la denuncia di complotti e cospirazioni (inesistenti) che giustificano le azioni violente. Dalla gloria all’infamia: la parabola di Richard Nixon Sono di volta in volta gli illuministi, i papisti, gli ebrei, gli abolizionisti, i socialisti, i comunisti a cospirare contro la salvezza della nazione. «Dal momento che la posta in gioco è sempre un conflitto tra un bene e un male assoluti – scrive Hofstadter – non c'è disponibilità al compromesso, ma la volontà di combattere fino in fondo. Non ci si può accontentare che di una vittoria assoluta». È lo “stile paranoide”, oggi così ampiamente praticato dai leader populisti in tutto il mondo. A queste spinte “dal basso” si è coniugata nella storia degli Usa un’altra tendenza antidemocratica: l’abuso di potere “dall’alto”. Fu il secondo presidente, John Adams, a far approvare nel 1798 gli “Alien and Sediction Acts”, un pacchetto di leggi che con la motivazione della sicurezza nazionale rendeva più difficile ottenere la cittadinanza, prevedeva la possibilità di espellere gli stranieri e processare chiunque criticasse il presidente e il governo. Immigrati e giornalisti nel mirino già allora, negli anni che Thomas Jefferson battezzò «il regno delle streghe». Del resto, «gli Stati Uniti, fondati sulla premessa che la libertà è un diritto di tutta l'umanità, hanno platealmente privato della libertà molti dei propri figli», scrive Eric Foner nella sua Storia degli Stati Uniti d’America (Donzelli). «I non bianchi, le donne, i lavoratori hanno provato sulla propria pelle il paradosso per cui l'esperienza di libertà di una persona è stata spesso collegata all'asservimento di un'altra». Questo paradosso della libertà americana è il filo conduttore del libro, che non nasconde come i passi avanti in tema di diritti compiuti negli ultimi decenni del secolo scorso siano oggi rimessi fortemente in discussione. L’éra di Trump, campione dell’imbarbarimento e della polarizzazione negli Stati Uniti Con le loro antenne sensibili, sono spesso i grandi scrittori a percepire i sommovimenti di fondo in anticipo sui tempi. A evocare la lava ribollente del fascismo americano sotto la superficie democratica è Il complotto contro l’America di Philip Roth (Einaudi). Il romanzo è ambientato negli anni ’40 e immagina che Franklin Delano Roosevelt sia sconfitto nelle elezioni presidenziali da Charles Lindbergh, il famoso aviatore, filofascista e antisemita. Gli Stati Uniti non entrano in guerra contro la Germania nazista, seguono un colpo di stato e pogrom sanguinosi contro gli ebrei americani. Il tutto è visto dagli occhi di un Roth bambino di otto anni, che assiste angosciato alle umiliazioni e alla paura dei genitori, e alle divisioni nella stessa comunità ebraica. La violenza arriva come qualcosa pronto da tempo a scatenarsi, aspettando solo l'occasione giusta. Roth lo ha definito «il mio romanzo più americano» e – contrariamente alle sue abitudini – ha voluto dichiarare il senso politico della sua opera: «La vita di noi americani è precaria come quella di chiunque altro: tutte le garanzie sono provvisorie, anche qui, in una democrazia vecchia duecento anni». Lo scriveva nel 2004 pre Trump.