L’allargamento dell’Unione europea all’Ucraina sarebbe un disastro con le regole attuali. Stiamo ancora scontando, e chissà per quanto tempo, l’errore dell’allargamento a est del 2004: un passaggio avvenuto senza aver cambiato in nulla l’impianto istituzionale dell’Unione.

Allora c’erano comunque ragioni storiche e di comunanza culturale per buttare il cuore oltre l’ostacolo. Gravava infatti un senso di colpa in Occidente per avere sostanzialmente abbandonato quei paesi al cupo destino di sudditi di Mosca, senza riuscire a smuovere nulla per quarant’anni e più.

L’ombrello protettivo della Nato si era subito aperto, spingendo così l’Unione ad aprire le porte. Inoltre con quei paesi, dalla Cecoslovacchia alla Romania, dalla Polonia all’Ungheria, dai paesi baltici alla Bulgaria, avevamo intessuto per secoli fittissimi scambi culturali grazie soprattutto alla presenza dell’impero Austro-ungarico.

Il caso ucraino è del tutto diverso. Fatta eccezione per la Galizia, la zona di Leopoli, allora parte della corona asburgica, il resto del paese è stato immerso in un’altra area culturale, di impronta slavo-ortodossa. Inoltre le guerre intestine nello spazio jugoslavo avevano sollevato il timore che le tensioni interetniche serpeggianti nel mosaico dei popoli dell’Europa centro-orientale potessero deflagrare ulteriormente e con maggior violenza, se mai possibile.

L’allargamento venne infatti motivato, nella retorica dei governi occidentali dell’epoca, come una azione di stabilizzazione del continente. Il benefit, enorme per quei paesi, dell’integrazione europea avrebbe sedato ogni possibile conflitto intercomunitario. E in effetti così è stato. Da questo punto di vista il big bang del 2004 è stato un successo.

Ma lo abbiamo pagato, e caro, in termini di inefficienze, distorsioni e rallentamenti nell’obiettivo di una ever closer union. Soprattutto, amareggia constatare quanto sia ancora fragile, e anzi persino contestata, come fanno Orbán e Kaczynski, la democrazia rappresentativa. Proprio Orbán, giovane dissidente liberale di fine anni Ottanta e inizio anni Novanta, è diventato il teorico della democrazia illiberale. Come disse nell’estate del 2018, «un tempo guardavamo all’Occidente come un modello, adesso loro dovranno guardare a noi che rappresentiamo il futuro».

L’Ue non deve ripetere gli errori del passato e procedere a includere sic et simpliciter l’Ucraina, un grande paese che tra l’altro peserebbe quanto i maggiori paesi membri in termini di seggi parlamentari e posti nelle istituzioni. Come ci sono certi stati too big to fail, così altri, come l’Ucraina e prima la Turchia, sono too big to enter.

L’entusiasmo da crocerossina volenterosa di Ursula von der Leyen ha già creato troppi danni per lasciarla continuare nella sua disinvolta proiezione verso l’esterno. In questo contesto, l’unica proposta sensata l’ha formulata Emmanuel Macron, con Mario Draghi sostanzialmente sulla stessa lunghezza d’onda.

Va creata una Europa a più cerchi concentrici, dove alcuni, sostanzialmente i paesi dell’euro e/o di più antica adesione, formano un nucleo duro perché vanno a condividere molte aree di policy con istituzioni più cogenti, e rispondenti agli elettorati.

Gli altri paesi costituiscono una fascia esterna legata da accordi economici con istituzioni ad hoc collegate in qualche modo con il nucleo duro: un mercato comune e poco più. I federalisti d’un tempo insorgerebbero scandalizzati di fronte a questa idea.

Ma allora non immaginavano nemmeno una Europa libera dai Pirenei al Caucaso. Oggi il salto di dimensione impone un ripensamento radicale delle strutture comunitarie. Pena il disfacimento del progetto europeo.

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