Tutto si capovolge, si torna al periodo della prima guerra in Afghanistan contro l’Urss, quando gli Stati Uniti armavano il jihadismo in funzione antisovietica
Recep Erdogan sostiene di aver chiesto al regime di Damasco di negoziare senza ricevere una risposta. I jihadisti di Idlib sono andati dunque avanti fino a Damasco e il regime è caduto anche per una sua rottura interna.
Per più di dieci anni Assad non ha voluto trattare con nessuno, riuscendo a congelare o a far deragliare i vari tentativi di Ginevra, Istanbul, Sochi ecc. Parlare con i jihadisti (eredi di al Qaeda e non dell’Isis, come erroneamente molti media hanno scritto) è stato per lui assurdo, soprattutto includeva cedere a un inaccettabile condominio con i turchi sulla Siria.
Così ha perso tutto. È la dimostrazione che non voler negoziare porta quasi sempre a situazioni peggiori. Quando si tratta di negoziare occorre farlo subito, senza lasciarsi cullare dall’illusione di acquisire una “posizione di forza” o –peggio ancora- senza illudersi della vittoria (come si è fatto per l’Ucraina).
Di questi tempi tutto è imprevedibile e le cose possono cambiare improvvisamente, rendendo ogni programma (anche bellico) inutilizzabile o superato. Gli effetti possono essere contradditori: in Siria la vittoria dei jihadisti (per ora) filo-turchi potrebbe avvantaggiare Ankara contro i curdi del Rojava, come nemmeno troppo segretamente spera Erdogan.
Tuttavia in Turchia non sanno cosa aspettarsi dalle sabbie mobili siriane: una volta sconfitti gli alawiti di Assad, potrebbero essere costretti a convivere coi curdi sostenuti ancora dagli americani. E poi l’Isis non è del tutto finito. Gli attori sul campo sono troppo numerosi per riuscire a manovrare la scacchiera con mosse regolari come nel gioco.
Per questo Erdogan aveva proposto la trattativa a Assad che avrebbe fatto bene ad accettarla: meglio sfidarsi attorno ad un tavolo che perdere terreno o la vita. Su qualsiasi ipotesi futura occorrerà sentire anche Mosca (umiliata davanti al mondo dalla rapida avanzata dei jihadisti che hanno pure preso una base missilistica) e infine Teheran (a cui forse conviene ora un po’ di calma).
Ma serve anche la neutralità israeliana che ha molto indebolito Damasco con i bombardamenti di questi ultimi mesi. Tutto lascia pensare che Tel Aviv si opponga a una sistemazione siriana sotto la (provvisoria) egida turca ma anche che non veda male i jihadisti (con cui ha collaborato a sud durante la prima fase della guerra), né possa ignorare del tutto le preoccupazioni russe.
Israele non applica le sanzioni occidentali contro Mosca e mantiene i canali aperti (qualcuno sostiene anche che prosegue gli scambi di tecnologia ed energia) con la Russia.
Vedremo la tendenza impressa dall’amministrazione Trump. Tutti si chiedono se convenga di più una Siria a pezzi o uno stato qaedista. Forse siamo a una ennesima svolta che include l’ipotesi jihadista, tentando di normalizzarla. È un paradosso della politica internazionale odierna che un avatar di al Qaeda ottenga uno “stato della sharia” con l’aiuto turco e occidentale (e israeliano), mandando alle ortiche la narrazione della lotta antiterroristica prevalente fino ad ora. Come in Afghanistan ma con sbocco sul Mediterraneo: al limite qualcosa di molto più pericoloso.
Ci sarà da riflettere sulle conseguenze e alle risonanze ad esempio nel Sahel, in Mozambico settentrionale o financo in nord Africa. Dopo anni passati ad ascoltare il ritornello “stiamo combattendo contro il jihad per voi occidentali” da parte dei peggiori regimi dittatoriali arabo-musulmani, ora tutto si capovolge tornando al periodo della prima guerra in Afghanistan, quella contro l’Urss quando gli Stati Uniti armavano il jihadismo nascente in funzione antisovietica.
In Medio Oriente la confusione strategica è talmente profonda che da tale groviglio potrebbe uscire qualsiasi mostro geopolitico. Le guerre si concatenano l’una all’altra e i vari attori reagiscono appiattiti sulla tattica dell’attimo presente. D’altronde nessuno riesce più a fare previsioni. A tali condizioni è avvantaggiato chi prende più rischi, consapevole tuttavia di potersi sbagliare e perdere tutto in un instante.
A questo gioco il più bravo si è rivelato Erdogan che finora non ha perso un colpo. Aveva dovuto fare alcuni passi indietro a causa del pogrom del 7 ottobre perpetrato dalla fazione filo-iraniana di Hamas, ma la morte di Yahia Sinwar sta rilanciando la parte filo-turca del movimento palestinese, con Khaled Meshal.
Anche i combattenti siriani filo-turchi si sono rivelati alla fine abbastanza leali, sia nei teatri in cui sono stati inviati (Libia, Azerbaijan ecc.) che nella sacca di Idlib. La qaedista Tahrir al Sham (HTS), pur gelosa della propria identità, ha saputo interpretare gli umori di Ankara senza mai andare oltre i limiti consentiti. Ora si prende la sua rivincita con la conquista della Siria.
Nemmeno la telefonata tra Putin e Erdogan ha fermato la discesa verso Damasco. Vedremo come si ricomporrà il delicato equilibrio cooperativo-competitivo tra Mosca e Ankara: che fine faranno le basi russe in Siria? Da questo dipendono molte cose che interessano l’Europa e gli Usa.
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