Oggi l’economia italiana sta in piedi perché la Banca centrale europea compra il nostro debito, ma non durerà per sempre. Nella primavera 2022 si auspica che ci saremo lasciati alle spalle la pandemia e avremo una robusta ripresa in tutto il mondo: non c’è ragione per cui la Bce prosegua nel suo programma di emergenza, come la presidente Christine Lagarde ha lasciato intendere. Che accadrà allora all’Italia?  Dipende da come ci arriveremo.  

Quest’anno, il sostegno della Bce ci ha permesso di fare manovre espansive inedite (110 miliardi) senza contraccolpi sui mercati. Ma quando quel programma sarà finito, noi ci troveremo con il più alto debito di sempre (oltre il 160 per cento per cento del Pil).

Circa un terzo sarà detenuto dalla banca centrale, e forse potrà essere sterilizzato a tempo illimitato. Ma anche se questo avverrà (e non è scontato), ci ritroveremo con un debito da onorare sul mercato superiore al 100 per cento del Pil che ci espone alle turbolenze dello spread.

Manovre di rientro “lacrime e sangue” azzopperebbero la ripresa e non farebbero che peggiorare la situazione, anche in termini di rapporto debito/Pil, come già accaduto (l’«austerità espansiva» è una pericolosa illusione).

Certo, durante una ripresa i contraccolpi sarebbero minori, l’austerità in quei casi è meno nociva, ma date le condizioni anemiche del nostro Pil, un corposo piano di rientro ci farebbe piombare in stagnazione finendo per aggravare i timori dei mercati. Senza contare il rischio di ridare fiato ai populisti e rimettere in discussione la costruzione europea.

La strada non è che una: tornare a crescere. Negli ultimi vent’anni siamo stati gli ultimi di tutto il mondo avanzato, per quattro motivi: il mal funzionamento della pubblica amministrazione e della giustizia; gli scarsi investimenti in istruzione e ricerca; la mancanza di una politica industriale nei settori strategici, unita al nanismo delle imprese; le elevate disuguaglianze, sorrette da un sistema fiscale che favorisce l’impiego improduttivo della ricchezza. In tutte queste quattro aree noi ci differenziamo, in negativo, dalle altre principali economie.

La riforma della pubblica amministrazione e della giustizia, quella del fisco sono fra le condizioni poste dall’Europa nel Recovery Plan. Le nuove risorse a disposizione consentono ora di investire nell’istruzione e nella ricerca, e di fare politiche industriali ambiziose in direzione della green economy e del digitale.

I bonus a pioggia, elargiti solo per guadagnare consenso, non servono. Una riforma fiscale in senso progressivo, che alleggerisca il carico sul ceto medio e produttivo, e lo sposti invece sulla rendita (si pensi a quella immobiliare, oggi tassata in modo piatto; o alle eredità, che godono di un regime fra i più bassi di tutto il mondo avanzato), dovrà pure scontentare qualcuno. E dovrà accompagnarsi a una lotta ancora più dura contro l’evasione fiscale. Su questo una parte della maggioranza (Pd e LeU) ha le idee piuttosto chiare, ma 5stelle e Italia Viva fanno spallucce o remano in direzione contraria; per non dire dell’opposizione. Lo stesso per la riforma della pubblica amministrazione e per gli investimenti sulla scuola e la ricerca.

Il Recovery Plan è trasversale a molti di questi temi ed è, in questo senso, la cartina di tornasole.

La bozza del governo affronta in modo serio la riforma della giustizia, tuttavia il fatto che finora si sia parlato soprattutto di organigrammi e non del merito dei progetti non lascia ben sperare sulla consapevolezza che alcuni leader politici hanno della vera posta in gioco.

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