A dieci anni dalla primavera tunisina e a trenta dalla guerra del Golfo, il mondo arabo si presenta con un’immagine double face. Da una parte a livello politico sembra che poco o nulla sia cambiato: regimi violenti e autoritari continuano a mantenersi saldamente al potere e se lo hanno perso è stata solo una breve parentesi. Le speranze di democrazia (sia quelle endogene delle primavere che quelle importate da fuori) sono tramontate, spesso affogate in bagni di sangue, guerre e terrorismo. Molti osservatori pensano che sarebbe stato più saggio non suscitare speranze di apertura, convinti che il mondo arabo si possa governare soltanto con il pugno duro.

Una nuova generazione

Tuttavia dal lato sociale molto è cambiato: le popolazioni non sono più quelle di prima, non ragionano più come una volta e hanno nuove priorità personali e collettive. Numerosi sono i segnali del cambiamento. Trent’anni fa, ad esempio, la questione palestinese era ancora centrale, stava su tutti i media arabi, entrava in tutti i talk show televisivi e condizionava il dialogo tra mondo arabo ed Europa o Occidente. Oggi non se parla quasi più. Dieci anni fa, è un altro esempio, le primavere capovolsero il vittimismo arabo: critiche vennero rivolte verso i propri regimi e non più solo contro gli stranieri occidentali. Tale atteggiamento ha lasciato un segno come si vede dalla resilienza giovanile che persiste a scendere in piazza in Algeria, in Libano o in Iraq: i giovani arabi non sono più facilmente manipolabili dalle autorità anche se la democrazia non ha portato il benessere che speravano.

Talvolta nel caos creato dalla globalizzazione e dai ripetuti fallimenti dei regimi si sono inseriti i jihadisti. La vicenda irachena prima, siriana e libica poi, dimostrano che nel vuoto di politica può trovare spazio il mostro del terrorismo. Tuttavia diviene sempre più chiara la falsità dell’alternativa posta dagli autoritarismi arabi: o noi o il caos. Quella tra terrorismo o dittatura è una scelta inaccettabile. La stessa opinione pubblica araba è ormai cosciente che tra i due estremi esiste un’oggettiva complicità: uno provoca l’altro, uno porta all’altro.

Nondimeno ancora oggi la democrazia araba è orfana e senza amici: sono pochissimi a credere che nel mondo arabo-islamico possano sorgere governi democratici rispettosi dei diritti umani. C’è un pregiudizio di base sull’islam che in radice impedirebbe (come religione ma anche come cultura e civiltà) l’emersione di una vera democrazia. Tale tesi sostiene che l’islam sarebbe per sua stessa natura incompatibile con la democrazia liberale. In realtà tale pensiero è spesso provocato da interessi di parte: a molti governi occidentali vanno bene regimi autoritari dai quali importare gas e petrolio e mediante i quali contenere le migrazioni. Non si spiega in altro modo l’incapacità degli Stati europei ad allearsi sulle violazioni dei diritti umani che riguardano i loro cittadini: la Francia non protesta per l’assassinio di Giulio Regeni in Egitto, così come l’Italia non si scandalizza per l’arresto di Roland Marchal o la detenzione di Fariba Adelkhah in Iran. Lo fa soltanto la società civile ma non i governi: qualcosa su cui riflettere. 

La storia e la cronaca recente dimostrano che i diritti individuali e collettivi nei paesi arabi non sono meglio protetti dai regimi autoritari, né la condizione femminile vi è migliore. In realtà tali regimi si basano su una miscela di conservatorismo, tradizionalismo patriarcale e militarismo che spesso nutre la stessa cultura dei jihadisti. Questi ultimi si distinguono per la pretesa di lottare contro la corruzione e per un presunto egualitarismo sociale. In realtà entrambi alimentano le paure e i preconcetti dell’altro, accomunati dall’idea che si governa mediante la violenza e la coercizione. Oggi la società araba (in particolare i giovani) se ne rende conto molto di più di quanto pensiamo. Purtroppo non è facile liberarsi da autoritarismo, jihadismo o teocrazia, come dimostra la stessa storia europea. 

L’opinione degli arabi

Anche l’aspetto ritenuto più irremovibile sta mutando: quello religioso. La secolarizzazione ha colpito il mondo arabo-islamico provocando evoluzioni interessanti. Per l’Arab Barometer la percentuale degli arabi che si dichiara “senza religione” è cresciuta dall’8 per cento del 2013 al 13 per cento di oggi. Tra i giovani sotto i 30 anni si giunge al 18 per cento. Tra i paesi dove la religione sembra pesare di meno ci sono Tunisia e Libia, mentre i paesi più religiosi appaiono essere Yemen e Iraq. Contemporaneamente la fiducia nell’islam politico è diminuita. Anche se il 27 per cento degli algerini considera ancora accettabile il delitto d’onore, la stessa percentuale (il 26 per cento) ammette l’omosessualità come lecita. In Sudan addirittura la seconda supera la prima: 17 per cento a 14 per cento. La Giordania pare il paese più tradizionalista: 21 per cento a favore del delitto d’onore contro solo il 7 per cento per l’omosessualità. Tra gli undici paesi considerati, solo gli algerini rifiutano ancora in maggioranza l’idea di un presidente donna.

Oltre alle questioni etiche ci sono anche sorprese su temi politici. Il leader più popolare in 6 paesi su 11 è Erdogan, seguito da Putin e solo ultimo Trump (quasi tutti gli intervistati facevano il tifo per Biden). Per giordani, palestinesi e sudanesi si va oltre il 75 per cento di simpatia per il leader turco; ma in Libano, Libia e Egitto la sua quotazione scende sotto quella del presidente russo. In generale quasi tutti auspicano un rafforzamento dei legami con Ankara mentre c’è un basso tasso di favore per l’Iran (si va oltre il 30 per cento solo per libanesi, palestinesi e iracheni). Anche su Israele i dati sono interessanti: soltanto palestinesi e libanesi lo considerano un pericolo maggiore. Per sudanesi, libici, yemeniti, iracheni o tunisini la cosa cambia del tutto: il pericolo sono l’Iran o gli Usa. Un terzo di sudanesi crede che sia giusto «coordinare la propria politica estera con quella di Israele», seguiti dal 24 per cento dei palestinesi, il 23 per cento degli egiziani e così via. La normalizzazione tra lo stato ebraico e gli emirati piace al 20 per cento dei libanesi. Le opinioni favorevoli sull’Arabia Saudita e gli Usa invece scendono quasi ovunque mentre si vorrebbero maggiori legami con Cina e Russia.

Preoccupanti le opinioni sulla democrazia: oltre la metà degli iracheni, il 40 per cento dei tunisini e cifre simili per algerini o sudanesi pensano che la democrazia faccia male all’economia. Allo stesso modo scende la fiducia nella società civile organizzata e cala l’interesse per la politica e il favore per le proteste. Uno speciale modello autoritario straniero sta prendendo piede nell’immaginario dei giovani arabi? Come si vede un quadro articolato e vario che mette in luce un fatto incontrovertibile: la società araba – soprattutto i giovani - si muove ed è in tumultuosa trasformazione.

Il mondo arabo, nel mondo

Anche geopoliticamente le cose sono molto cambiate. Il fronte del rifiuto, ovvero i paesi arabi oltranzisti anti Israele (come Siria, Iraq o Algeria), è tramontato lasciando il posto ad un altro modello di successo anche se pieno di ambiguità: quello dei paesi del Golfo, ricchi ed influenti. Una volta si trattava di un universo poco stimato nel mondo arabo. Oggi è la parte trainante sotto tutti gli aspetti. La Siria non esiste più; l’Algeria non esce dalla sua lunga fase di crisi; l’Iraq è instabile e diviso. Resta l’Egitto ma in una situazione indefinibile, internamente spaccato (i fratelli musulmani non sono scomparsi), percorso da esigenze democratiche e ingabbiato in un dispotismo senza progetto. La violenza diffusa regna in molte città una volta centri influenti. La penisola arabica si stacca dal disordine generale, con la rilevante eccezione dello Yemen che potrebbe però risucchiarla nel caos. Contemporaneamente guarda sempre di più alla Turchia.

Il mondo arabo sta cambiando sotto i nostri occhi. Le speranze delle primavere non sono spente ma aspettano la prossima occasione. Malgrado le difficili condizioni economiche e la pandemia, si tratta di società resilienti che resistono nella tenaglia rovente tra jihadismo e autoritarismo arabo. Sarebbe saggio ascoltarle di più per aiutare nel modo giusto una lenta ma ostinata evoluzione verso la democrazia. 

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