Una tregua “autoritaria”: il senso di Trump per la pace

«Provare ad andare in paradiso, se possibile», o almeno vincere il Nobel per la pace. Nei piani di Donald Trump, mettere fine alla guerra di aggressione russa in Ucraina e salvare migliaia di vite rappresenta la via maestra per il prestigioso riconoscimento norvegese, se non addirittura – come ha dichiarato in un’intervista a Fox News – per la vita eterna. Non c’è dubbio che lo sforzo del presidente Usa per la risoluzione del conflitto lo ponga dalla parte di ciò che è universalmente considerato un bene. Quando tuttavia la parola “pace” esce dalla bocca di un leader che basa tutta la sua politica, interna e internazionale sull’uso della forza a fini di pressione, intimidazione, riduzione al silenzio di avversari, nemici e persino presunti amici, che significato assume? E quale pace può uscire dall’incontro di volontà di capi di stato con velleità autocratiche, che conoscono solo la logica della potenza e del profitto? La coerenza di Bibi, la cacciata di un popolo e il paese negato La domanda non riguarda la possibilità (remota, forse inesistente) di una pace «giusta», da opporre a una «ingiusta» quando si tratterà di stabilire quale quota di territorio ucraino dovrà passare in mano russa, ma semmai le conseguenze politiche e giuridiche, non solo militari, dell’accordo. La questione è: di cosa parliamo quando parliamo di pace? Cosa significa fare la pace in un contesto di riduzione al silenzio e all’irrilevanza degli organismi multilaterali che sono nati, dopo le guerre mondiali del secolo scorso, per promuoverla e garantirla, per superare la pura logica di potenza nei rapporti tra gli stati? Sembra utile, in questo frangente, tornare a frequentare gli interrogativi che agitavano i sonni degli intellettuali quando, negli anni Trenta e Quaranta, l’impegno per civilizzare le relazioni internazionali era ancora da venire. «Pensare e dire la pace significa, anzitutto, pensare l’impensato della pace», scrive Rosella Prezzo nel libro Guerre che ho (solo) visto (Moretti&Vitali), richiamando le pagine di filosofe e scrittrici che, nel Novecento, hanno saputo porre la questione in modo radicale. Alle radici della “dottrina Trump”: cinica, sovranista e imperiale Come si può sfuggire al perpetuarsi di massacri e distruzioni, se non si mette in discussione l’idolatria della forza che fin dall’Iliade domina la cultura occidentale, chiede Simone Weil? Come difendersi dai mostri dell’autoritarismo e del totalitarismo se non si disarma l’immaginario patriarcale, o quello che Virginia Woolf, scrivendo nel 1940 sotto le bombe degli aerei tedeschi, chiama l’«hitlerismo inconscio», il desiderio di dominio totale e illimitato che abita le menti di tanti uomini? Come pensare la pace oltre la semplice e pur necessaria cessazione o negazione della guerra? La filosofa María Zambrano, ancora sulla scorta dei conflitti del secolo scorso, ha parlato della necessità di «impostare la vita in vista della pace», perché «se la pace è innanzi tutto l’assenza della guerra, è anche qualcosa di più, molto di più. La pace è un modo di vivere, un modo di abitare il pianeta, un modo di essere uomini». Può una simile idea di pace uscire, non solo dalla canna del fucile, ma anche dall’iniziativa politica di leader come Trump che vivono nell’«idolatria» della forza? Non c’è niente di nuovo, storicamente, nel fatto che i rapporti di forza dettino i termini di accordi e trattati. Di nuovo, rispetto gli ottant’anni alle spalle, quanti quelli delle Nazioni Unite, c’è che non resta in campo altra forza che la forza, nemmeno come richiamo ideale a un diritto perpetuamente contraddetto dai fatti. Nessuna logica alternativa, nessuna immaginazione istituzionale o giuridica, per bocca di nessun attore rilevante sul campo, sembra capace di farsi strada per trascendere il puro raffronto muscolare tra potenze mondiali. Rassegnarsi a questo stato di fatto, però, significa rinunciare a pensare la pace, lasciare che anche questa si trasformi in strumento del culto della forza. Che Trump vinca o meno il Nobel, o il paradiso.