Se una civiltà aliena decidesse di osservarci attraverso i nostri media, avrebbe pochi dubbi su cosa ci spinge ad agire, a fare politica… persino a combattere. Apprenderebbe della guerra di Israele per garantire la propria esistenza, del legame tra il destino dell’Europa e quello dell’Ucraina, degli sforzi della democrazia per contrastare il populismo, di un mondo impegnato a sfuggire all’Apocalisse del cambiamento climatico…

Scoprirebbe, insomma, della nostra disperata battaglia per la sopravvivenza, ma anche che, per noi umani, sopravvivere significa qualcosa di più del semplice tentativo di rimanere vivi a livello biologico: si tratta di una forma di “resistenza collettiva”, attraverso cui la società, la cultura, l’economia provano a opporsi di fronte a cambiamenti ritenuti nefasti. Nel concetto è sotteso il desiderio di conservazione di uno status quo che sentiamo tanto essenziale quanto vulnerabile. L’extraterrestre potrebbe dedurne che, in una civiltà decadente come la nostra, questo conservatorismo appare come l’unico scopo dell’esistenza.

Sarebbe il caso di spiegargli che non è sempre stato così. Attraverso la quasi totalità della nostra storia, l’idea di progresso è originata da un modello di società in costante trasformazione. Cambiamenti che conferivano agli sforzi umani un “senso”, nel significato anche letterale di “direzione”, orientato verso una precisa destinazione.

A lungo l’influenza del cristianesimo ha fatto coincidere questa meta con un fine trascendentale, legando ogni forma di sviluppo umano a un premio ultraterreno.

Col tempo, abbiamo scelto altri orizzonti, ma, in fondo, che si trattasse dell’eterna visione di Dio o del paradiso dei lavoratori, la mira era sempre proiettata oltre il limite del presente.

Un cammino verso l’infinito, ma non per questo indefinito: un monaco benedettino o un rivoluzionario bolscevico avevano chiara la ragione per cui miniavano un testo o giustiziavano lo zar. Per loro, la sopravvivenza non era il fine: piuttosto il mezzo, necessario ma per nulla sufficiente, affinché la loro missione si potesse compiere.

Man mano che, nella società occidentale, la tecnica diventava più importante del pensiero, i contorni della domanda “perché viviamo” hanno cominciato a sfumarsi. Pervasi dalla convinzione di disporre delle risorse per soddisfare ogni bisogno e risolvere ogni problema, oggi è quanto mai arduo immaginare “un fine” che dia significato al nostro cammino.

Ciò a cui tendiamo è il costante, indefinito miglioramento di noi stessi, per diventare ancora più efficienti e funzionali. È come se sopravvivessimo solo al fine di sopravvivere meglio.

Ogni campo della nostra esistenza è condizionato da questo cortocircuito. Un monastero medioevale avanzava innovazioni mediche e agricole con l’intento di avvicinare più fedeli possibile alla gloria di Dio. Le scoperte di filosofi e studiosi dei secoli scorsi si proponevano di donare all’uomo una comprensione piena dell’universo.

Oggi, persino medicina e scienza sembrano volerci regalare esistenze più lunghe per il gusto esclusivo di viverle al meglio. E se ciò può bastare per una realizzazione personale, il rischio, a livello collettivo, è quello di riprodurre la medesima società in modo sempre più affinato, ma sempre più simile a sé stesso.

È questa la ragione per cui viviamo? Allo scopo esclusivo di migliorarci indefinitamente? Ci è sufficiente bombardare con più precisione, sviluppare vaccini migliori, ridurre l’impatto della CO2? Ma poi, una volta sopravvissuti, cosa facciamo? Può progredire davvero una società dedita al solo perpetuarsi?

Per secoli la condizione attraverso cui abbiamo mantenuto la nostra umanità è stata quella di avanzare un progetto di civiltà. Non lo abbiamo fatto sempre bene o per nobili cause… intanto, però, siamo progrediti.

Oggi saremo anche efficientissimi nel preservare la nostra vita, le nostre tradizioni, i nostri soldi. Ma, in mancanza di un progetto che trascenda la sola sopravvivenza, rischiamo di perdere il nostro tratto più distintivo: quello spirito radicalmente umanistico capace di suggerire un “senso” al nostro percorso.

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