È in questi giorni in discussione al Senato un disegno di legge che modifica profondamente l’accesso alle carriere universitarie, sostituendo all’Abilitazione scientifica nazionale (Asn), conferita da commissioni nazionali specifiche per ciascuna disciplina, una procedura automatica basata su requisiti minimi autodichiarati. Una semplificazione, che però si realizza con modalità che ignorano i più recenti sviluppi europei e internazionali sulla valutazione della ricerca e delle persone che svolgono questa attività.

Gli stimoli internazionali

Dal 2012 – con la Dichiarazione di San Francisco (Dora) – fino all’Agreement on Reforming Research Assessment del 2022, sottoscritto da quasi 850 organizzazioni, tra cui 42 università statali italiane, i maggiori enti pubblici di ricerca (Cnr, Infn, Ingv, fra gli altri) e l’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca), si è affermato un nuovo paradigma: minore ricorso agli indicatori quantitativi e più attenzione a qualità, integrità scientifica, trasparenza dei metodi, riproducibilità dei risultati, impatto sociale e ambientale della ricerca, diversità delle carriere.

Principi recepiti dalla Raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea 1640 del dicembre 2023, approvata anche dal governo italiano.

L’ossessione per la quantità

Il disegno di legge ignora questo contesto e conferma l’ossessione per la quantità: vengono introdotte rigide soglie numeriche anche per il ruolo di ricercatore, scoraggiando le fasce più giovani e penalizzando chi ha carriere non lineari. Il criterio della «continuità temporale della produzione scientifica», infatti, rischia di escludere molti profili promettenti di ricercatori e ricercatrici che, nella loro traiettoria professionale hanno esplorato contesti diversi da quello accademico.

I requisiti differenziati per ciascuno dei 190 gruppi scientifico-disciplinari e le commissioni di concorso nominate all’interno dei (ben) 370 settori scientifico-disciplinari irrigidiscono ulteriormente un sistema già iper frammentato, poco adatto a valutare (e restio ad apprezzare) coloro che lavorano tra i confini disciplinari, negli ambiti di ricerca più promettenti per il progresso della conoscenza.

Si pensi che l’European Research Council valuta i progetti presentati da ricercatori e ricercatrici europei e internazionali aggregandoli in soli 25 gruppi di discipline e l’Anvur valuta la qualità dell’intero sistema nazionale dell’università è della ricerca suddividendolo in appena 17 aree scientifiche.

Mentre il Mur, nei requisiti per l’accesso dei ricercatori a tempo determinato alla posizione di professore associato, ha aperto alla valutazione dei risultati ottenuti in ambiti di attività quali il trasferimento tecnologico, la produzione e gestione di beni pubblici, il public engagement, le scienze della vita e della salute, la sostenibilità ambientale e il contrasto alle disuguaglianze, il ddl tiene in considerazione solo le attività di trasferimento tecnologico, limitatamente peraltro al caso in cui «le specifiche caratteristiche del settore scientifico lo richiedano», introducendo così un’inutile disomogeneità nella valutazione di aree scientifiche diverse.

Un sistema chiuso

L’impianto del disegno di legge cristallizza un sistema autoreferenziale e chiuso in sé stesso, incapace di attrarre nuovi talenti in un momento in cui l’Europa ne avrebbe un gran bisogno, stante un deficit strutturale di ricercatori rispetto alle altre economie avanzate. L’Italia, in particolare, rischia di perdere ulteriore terreno nei confronti di paesi più capaci di innovare nei meccanismi di selezione e valutazione.

Occorre quindi riscrivere il provvedimento, rendendolo coerente con i principi europei e con la nuova Valutazione della qualità della ricerca avviata da Anvur, che valorizza l’impatto trasformativo della ricerca, la responsabilità sociale, la cooperazione intersettoriale e la produzione di beni pubblici.

Solo così si potranno rendere le carriere della ricerca più attrattive e rilanciare l’università come motore di sviluppo civile, sociale ed economico del Paese. In caso contrario, il rischio è di approvare una riforma già obsoleta al momento della sua adozione. Il futuro dell’università italiana non si gioca sui numeri, ma sulla capacità di valorizzare intelligenze, passioni e percorsi diversi. Il Parlamento ha oggi la possibilità – e la responsabilità – di colmare il divario tra norme e realtà, tra regole e visione.

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