Può il nostro paese affrontare le sfide della modernità con idee e strumenti del secolo scorso? Esperti e studiosi si sono cimentati nelle ultime ore sulla rilevanza degli accordi fra lo stato italiano e la Santa sede, sulla loro interpretazione, sulle strategie che starebbero dietro al loro utilizzo strumentale. Quello che emerge è un quadro frammentato che sembra giovare ai meccanismi ben noti delle culture war di ogni risma: la facile esaltazione delle tifoserie, il dispiegarsi delle falangi di eserciti di twittaroli seriali, la monetizzazione del clickbaiting e il degrado del dibattito pubblico su un tema che invece dovrebbe pretendere serietà, rigore e metodo al fine di garantire i diritti di tutti nel rispetto delle diversità.

Questo esercizio non è facile in una società come quella italiana che con il Pnrr prova ad aggiornare il suo hardware infrastrutturale, ma avrebbe allo stesso modo bisogno di un aggiornamento del suo software ovvero delle idee, dei valori e degli strumenti che ci aiutano a vivere insieme in una democrazia liberale e pluralista. Quello che invece sempre più spesso accade è che la risposta emergenziale travolge ogni possibilità di intervento politico strutturato e della programmazione.

Così, in un paese che non riesce ancora ad approvare una legge generale sulla libertà religiosa (nonostante le numerose proposte esistenti) e vivacchia con una fascistissima legge del 1929 sui culti ammessi, non deve sorprendere se torna ad essere d’attualità un dibattito sull’interpretazione dell’accordo di Villa Madama del 1984 stipulato tra la Santa sede e la Repubblica italiana e firmato per modificare i contenuti del Concordato sottoscritto nel contesto dei Patti Lateranensi del 1929.

Uno studioso e un protagonista di quella stagione come il professor Francesco Margiotta Broglio, intervistato dal Fatto Quotidiano, ha sottolineato come nel 1984 sia stato decisivo il clima politico dell’epoca per arrivare all’accordo: «Negli anni Ottanta riuscimmo a rivedere i Patti Lateranensi sulla spinta dei referendum sul divorzio e sull’aborto. Rispetto all’accordo del 1929 il nostro testo è già molto snellito».

E oggi in che clima politico viviamo? Che società è quella italiana? Che ruolo ha la religione nelle vite dei cittadini oltre la facile esibizione di simboli religiosi per motivi di consenso elettorale o la pretesa di cancellare qualsiasi espressione religiosa dallo spazio pubblico in nome di una laicità interpretata in modo alquanto singolare? Possono strumenti del 1929 o del 1984 essere utili nel tempo che viviamo? La politica sembra aver messo da parte i temi che in un’altra epoca avremmo definito di “politica ecclesiastica”, ovvero quelli attraverso i quali ci si dovrebbe occupare della mutazione pluralista della società italiana. Una mutazione rapida che avrà conseguenze concrete e importanti. Basta pensare alla sorpresa di Giuseppe Conte quando, chiamato a firmare i protocolli per la riapertura dei luoghi di culto nel maggio 2020, scoprì il numero di musulmani presenti in Italia. I presenti all’evento raccontano di una sua evidente sorpresa.

Le commissioni scadute

Negli anni erano stati messi a punto alcuni strumenti per facilitare lo sviluppo di politiche pubbliche in materia e della collaborazione con tutte le confessioni religiose e non solo con la chiesa cattolica. Lo stato dell’arte è ben riassunto dall’interrogazione parlamentare presentata dal deputato Stefano Ceccanti (e altri) il 13 maggio 2020 (seduta 339). In questa interrogazione, Ceccanti chiedeva quando il governo avesse intenzione di procedere al rinnovo delle commissioni governative che si occupano di questi temi, tra cui la Commissione governativa per l’attuazione delle disposizioni dell’accordo tra Italia e Santa sede, firmato il 18 febbraio 1984, e ratificato con legge 25 marzo 1985, n. 121.

Ad oggi tutte le commissioni incardinate a palazzo Chigi risultano scadute dal 2018, mentre il parlamento non sembra interessato a discutere del tema e ogni tanto assistiamo a interventi di supplenza della Corte costituzionale. Il conflitto tra diritti è al centro della definizione delle identità globali e della stessa identità occidentale, non può non esserlo in Italia. Si posiziona Joe Biden, si posiziona Viktor Orbán, si posiziona Vladimir Putin, si posizionano gli altri paesi europei. Dovremmo essere capaci di farlo anche noi caricandoci la nostra storia sulle spalle. Una storia che è il frutto dello sviluppo di una laicità inclusiva e pluralista che dovrebbe marginalizzare opposte semplificazioni che non aiutano ad affrontare la complessità ma vendono bene sui social.

Lo stesso premier Mario Draghi nel suo intervento di ieri ha ulteriormente ribadito che «il nostro è uno stato laico, non confessionale. Il parlamento è libero di discutere e legiferare e il nostro ordinamento contiene tutte le garanzie per verificare che le nostre leggi rispettino sempre i principi costituzionali e gli impegni internazionali, tra cui il Concordato con la chiesa». C’è vita fuori da Twitter. Ci sono i nostri diritti.

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