La tragedia personale di Nichi Vendola, disperato per la condanna a tre anni e mezzo come complice di fatto dei Riva nell’inquinamento di Taranto con i veleni dell’Ilva, illumina simbolicamente l’incapacità della sinistra di avere leader capaci di fronteggiare vicende complesse.

L’ex governatore della Puglia rilascia drammatiche interviste in tv e ai principali quotidiani in cui si occupa solo di se stesso, riproponendo proprio il meccanismo mentale, tipico dei politici, che in definitiva fa sentire soli i cittadini e i lavoratori, in questo caso di Taranto. La condanna per aver concusso il direttore dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (Arpa) Giorgio Assennato, a sua volta condannato a due anni per favoreggiamento di Vendola per aver negato di essere stato concusso (cioè indotto minacciosamente ad ammorbidire il suo atteggiamento sull’inquinamento dell’acciaieria), appare tecnicamente discutibile ed è possibile che venga ribaltata in appello.

È dunque comprensibile l’amarezza di Vendola. Ma dopo una sentenza che assegna secoli di carcere a imputati accusati di aver avvelenato Taranto per 17 anni, causando tumori in quantità industriale, moltissimi infantili, l’uomo che ha governato la Puglia per dieci anni non dice una parola sul significato storico della sentenza. E rivolge alla magistratura critiche ingiuriose sigillate da una clausola infantilmente egocentrica: «Vorrei che la giustizia fosse lontana dal circo mediatico, che mantenesse il rispetto per il dolore delle persone, e il mio dolore è stato grande». Non una parola sul dolore delle madri di Taranto.

Vittima

Vendola si rappresenta, forse a ragione, come vittima di un errore giudiziario ma evita di confrontarsi con il suo vero problema. Non è per la sentenza di una settimana fa che i pugliesi non si fidano più di lui e non sarà l’eventuale assoluzione in appello a restituirgli la popolarità. Il fondatore di Sel e delle “fabbriche di Nichi” è stato travolto politicamente dalla rivelazione della sua ambiguità, vittima di una concezione antica e notabilare della politica che ammette una sola virtù cardinale: l’arte di conciliare sempre l’inconciliabile, anche a costo di giocare con le parole. Non lo capisce e insiste sulla solita nenia: «Il compito mio è di tenere in equilibrio due beni costituzionalmente rilevanti, diritto alla salute e diritto al lavoro».

Non saper andare oltre questa formuletta priva di utilità pratica (e politica) è l’errore che lo condanna all’irrilevanza con tutti i leader della sinistra e della sedicente tale. E al quale nessuna corte d’appello potrà porre rimedio. La sentenza di Taranto fissa un punto, salutato peraltro con enfasi da un garantista a 24 carati come Luigi Manconi: il diritto alla salute è l’unico a cui la Costituzione assegna l’aggettivo “fondamentale” e non può essere contemperato con quello al lavoro o all’impresa.

Anche per una semplice ragione pratica che Vendola sembra non capire: chi stabilirebbe il numero accettabile di tumori come prezzo per il mantenimento dei posti di lavoro? Facciamo un tumore all’anno ogni cento posti di lavoro, o sarà più prudente uno ogni mille? Nichi non sa andare oltre l’equilibrismo: «Il movente del mio reato è la difesa dei posti di lavoro».

Quando giovedì scorso Corrado Formigli (Piazzapulita, La7) gli ha chiesto se “la bocca siderurgica del male”, come la chiama nelle sue poesie, va chiusa o se è ancora possibile tenere insieme acciaio e salute, Vendola ha replicato con la risposta definitiva e maestosa che sigilla la parabola politica sua e di molta sinistra: «Non lo so». Sipario.

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