Il formidabile successo di ChatGPT, sviluppato da OpenAI, un sistema di algoritmi detto chatbot che permette a un computer di comprendere le domande e le richieste degli umani per produrre risposte sotto forma di testi, immagini, suoni o video, ha scatenato l’interesse del mercato e dell’opinione pubblica per l’intelligenza artificiale (AI) e per gli effetti che avrà sulla vita delle imprese e il comportamento dei consumatori. Forse neanche Microsoft, che ha investito in OpenAI per cercare di dare al proprio motore di ricerca (Bing) un vantaggio competitivo su Google, si aspettava un tale riscontro: 200 milioni di utenti a cinque mesi dal lancio.

ChatGPT non è una nuova invenzione né l’AI una scoperta scientifica recente, ma entrambe fanno parte di un processo evolutivo che viene da lontano. Oggi AI è diventato anche una specie di marchio usato a scopi commerciali anche per applicazioni e software che con l’AI hanno poco o nulla a che fare.

Una lunga gestazione

Il progresso tecnologico è un processo lungo, che però necessita di un catalizzatore per poter attirare l’interesse di una vasta platea di investitori e dell’opinione pubblica. Infatti, il primo programma di Natural Language Processing (elaborazione di testi) ha sessant’anni; da questo derivò Doctor, antesignano dei chatbot, un programma in grado di far svolgere a un computer una sessione di psicoterapia con un “paziente” umano.

Il primo programma di reti neurali capace di “apprendere” dai dati, (il Perceptron) è degli anni cinquanta, e il primo sistema di Deep Learning degli anni Sessanta. Con il programma per il riconoscimento dell’iride degli anni Novanta i computer hanno imparato a riconoscere le immagini, un’applicazione che oggi usiamo comunemente per accedere allo smartphone o autorizzare un pagamento. E nel 1997 Deep Blue, un computer di IBM, ha battuto un campione del mondo a scacchi. Naturalmente tra l’AI di oggi e quella degli albori c’è la stessa differenza che passa fra una Lamborghini Huracàn e una Ford T, anche se entrambe sono “automobili”.

Il catalizzatore

ChatGPT ha fatto da catalizzatore, attirando l’attenzione sulle potenzialità non solo dei chatbot ma di tutte le applicazioni che vanno sotto il nome di Generative AI: algoritmi in grado di generare autonomamente, senza intervento umano, testi, video, musica, immagini, oggetti, svolgere funzioni o eseguire azioni. Diverse altre applicazioni di AI hanno avuto una vasta eco, come la realtà virtuale (il Metaverso di Facebook e il Vision Pro di Apple) o le auto a guida autonoma, ma nessuna aveva innescato un tale interesse come la Generative AI.

Lo rivela anche uno studio sul numero di società quotate che menzionano l’AI nei documenti ufficiali: mentre i termini machine learning e AI da anni appaiono stabilmente nel 5 e 7 per cento dei casi, Generative AI è passato da zero all’8 per cento in un solo trimestre; oggi quasi una società quotata su cinque fa un riferimento all’AI.

Si pensa che la Generative AI sia l’apice di un processo di innovazione tecnologica – che include anche altre innovazioni come il Cloud o la Distributed Ledger Technology (per esempio, blockchain) – che avrà un forte impatto sui nuovi prodotti e servizi, e sulle modalità di produzione e organizzazione aziendale. Si stima, per esempio, che in pochi anni l’AI verrà utilizzata per sviluppare il 30 per cento dei nuovi farmaci e per svolgere il 15 per cento delle nuove applicazioni, rafforzando la tendenza verso l’automazione delle funzioni d’impresa.

Per molti versi il momento attuale è simile all’avvento di Internet, un’evoluzione tecnologica che a un certo punto ha catalizzato l’attenzione del mercato (fino a creare una bolla), per poi incidere radicalmente sull’innovazione di prodotti e servizi, abitudini dei consumatori e organizzazione d’impresa.

Allora, come oggi, ci fu la corsa a prevedere chi si sarebbe avvantaggiato della nuova tecnologia. Sembrerebbe ovvio puntare su chi quella tecnologia la produce, o le imprese che ne fanno un utilizzo immediato. Così oggi il mercato premia chi fornisce gli “strumenti” all’AI (semiconduttori, capacità di calcolo, infrastruttura tecnologica, cloud, software delle nuove applicazioni).

Molti di questi titoli hanno però raggiunto dei multipli di valutazione elevati che già scontano la forte crescita futura: per esempio Nvidia, leader nei processori per l’AI, è schizzata da 47 a 100 volte gli utili attesi.

Internet insegna però che, alla fine, vince chi sa usare la nuova tecnologia per rivoluzionare un settore consolidato: allora, inizialmente, si puntò su media e telefonia, oggi in declino, mentre sappiamo che a vincere sono state società come Amazon, che ha cominciato vendendo libri, Booking, coi viaggi, Google con la pubblicità o WhatsApp che ha mandato in soffitta gli sms.

I vincitori

I vincitori dell’AI saranno dunque le società che meglio riusciranno a usarla per creare nuovi ricavi, abbattere i costi o aggredire posizioni consolidate in settori tradizionali. Da questo punto di vista sono le società nella sanità, nell’industria e nei beni di consumo i potenziali maggiori beneficiari.

Nella sanità, l’AI può aumentare i ricavi facilitando la ricerca e sviluppo di nuovi farmaci, migliorando e innovando la diagnostica e la strumentazione medicale, offrendo cure mirate e personalizzate, e abbattendo i costi. L’industria, specie i produttori di beni di investimento, sarà un altro grande beneficiario, grazie a sviluppo di nuovi materiali, logistica più efficiente, filiere produttive e gestione delle scorte, robotica e automazione dei processi e integrazione dei sistemi aziendali e di pianificazione.

In poche parole: più efficienza e innovazione di prodotto e di processo, a costi minori. Il terzo settore è quello dei beni di consumo, grande distribuzione, alimentare, tempo libero e ristorazione perché l’analisi “intelligente” dei dati, permette di offrire prodotti calibrati su esigenze e gusti del singolo, di prevedere le tendenze di spesa e gusti dei consumatori, di dare raccomandazioni e fare pubblicità mirata, di innovare rapidamente l’offerta e adattarla ad aree geografiche e segmenti di popolazione.

Una caratteristica che accomunerà le società vincenti in questi settori sarà la dimensione: con l’AI le economie di scala assumono una rilevanza fondamentale. Alla lunga un handicap per l’impresa italiana dove “piccolo è bello” e le multinazionali sono “tascabili”.

Anche la finanza potrebbe essere beneficiare dell’AI, grazie all’automazione di funzioni e operazioni: non solo pagamenti e transazioni finanziarie, ma anche sconto fatture, concessione di mutui, vendita di polizze assicurative, consulenza finanziaria, attività di arbitraggio, sviluppo commerciale, rendicontazioni, o profilazione dei clienti per i rischi. Ma penso che saranno frenate dalla pesante eredità di vecchie strutture informatiche, dalla regolamentazione che frena l’automazione, dalle preferenze dei tanti clienti che esigono il rapporto personale e dall’eccesso di dipendenti. Così saranno i fornitori di tecnologia e servizi a banche e assicurazioni ad avvantaggiarsi dall’AI, non avendo il fardello del passato.

Gli sconfitti

Telefonia, servizi di pubblica utilità, società energetiche, reti e tutte quelle la cui attività dipende da una grossa quantità di capitale fisico, e che offrono servizi di massa, non differenziabili per fasce di consumatori e con poca innovazione di prodotto avranno pochi vantaggi dall’AI, limitata alle funzioni amministrative e ai call center.

Per i media, infine, l’AI è una grande opportunità ma anche una grande minaccia. Opportunità perché permette di innovare rapidamente prodotti e servizi e, soprattutto, le modalità con cui sono offerti, nonché offrirli in modo mirato per tipologia di utenti, anticipare le tendenze e arricchire i contenuti. Ma l’AI abbatte anche le barriere all’ingresso nel settore, e questo costituirà una minaccia per i media esistenti che non saranno in grado di adattarsi al cambiamento imposto dall’avvento dell’AI, subendola invece di usarla a proprio vantaggio.

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