Nessun segno di disappunto, nessun j’accuse, nessuna rimostranza. Perciò no, dai toni della conferenza stampa non si poteva dedurlo. Non si poteva immaginare che la presidente della Commissione europea fosse finita a margine, sul bordo di un divano, nell’incontro a tre di Ankara, nel «momento del dialogo».

Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione europea, e Charles Michel, il presidente del Consiglio europeo, che rappresentano l’una l’esecutivo di Bruxelles, l’altro il consesso dei capi di governo europei, hanno parlato di «scambi da intensificare», di commerci. Von der Leyen ha anche detto che se la Turchia mosterà cooperazione, le arriveranno altri soldi europei perché trattenga entro i suoi confini i rifugiati. 

Nessuno dei due, né Michel né von der Leyen, ha accennato a quei pochi secondi di video che adesso rimbalzano su twitter e nei commenti degli editorialisti con il nome di “sofa gate”, hashtag #sofagate. Di che si tratta? Potete vederlo: i due presidenti europei arrivano, le sedie sono solo due, il presidente turco ne occupa una, il presidente del Consiglio europeo senza indugio occupa l’altra, e Ursula von der Leyen mormoreggia «ehmmmm». 

Poi si siede sul divano.

L’episodio, riletto a freddo, ha ispirato molte riflessioni, ma tutte su Erdogan e su Michel.

Su Erdogan si è detto che il suo è stato un grave sgarbo istituzionale. Su Michel, che avrebbe dovuto cedere il posto a von der Leyen, e che invece ha dato prova di machismo, di arroganza. C’è chi ne invoca le dimissioni. I cerimoniali sono stati scandagliati, ci si è chiesti come mai, se tutto è stato preparato a puntino, con i vari staff, allora questa manovra della sedia mancante sia stata concessa.

In tutto questo che fine fa von der Leyen? 

Non è dato sapere se la sedia mancante sia solo una affermazione di arroganza maschile o anche un modo per ribadire che i governi contano più dell’Unione. Un’altra arroganza che si somma ad arroganza: dopotutto, Erdogan rappresenta un paese, Michel i capi degli esecutivi europei, e alla fine sul divano ci finisce l’Unione, l’esecutivo europeo per eccellenza, quello che dovrebbe ragionare in un’ottica comune invece che come somma delle istanze dei governi.

Ma il cuore della questione è un altro. Erdogan doveva mettere una terza sedia; certo, il suo è un affronto. Michel doveva cedere la sua, esprimere comunanza, e quindi assolutamente sì, la condanna del suo comportamento è più che legittima. Che fine fa in tutto questo la protagonista dell’affronto? In quel momento rappresenta più che se stessa, in quel momento alle parole – le «donne al potere», i «diritti non negoziabili» – è chiesta consequenzialità. La politica non è solo parole, promesse, ma è reliability, far seguire alle parole i fatti; diversamente, è retorica, è fuffa.

Immaginate Merkel dire «ehmmm» mentre le negano la sedia? E Kamala Harris, che disse che la sua vicepresidenza era un segnale per tutte le donne, che possono aspirare a realizzare i propri sogni, troverebbe istruttivo che la donna che rappresenta l’Europa batta in ritirata sul divanetto?

Erdogan doveva prevedere una sedia. Michel cederla. Von der Leyen pretenderla, esigerla, rivendicarla. Piantarsi lì in piedi finché una terza sedia non fosse spuntata.

Ricordiamo che ieri in conferenza stampa una cronista ha domandato, ma quindi i commerci e gli scambi vengono prima dei diritti umani? E von der Leyen ha replicato: «I diritti non sono negoziabili». Per poi aggiungere che vorrebbe che la Turchia rinunciasse a uscire dalla convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. La scelta europea di dare altri miliardi a Erdogan per costruire una Europa-fortezza che respinge, l’insistenza di von der Leyen e Michel - dopo, la sedia - sul fatto che bisogna dialogare con la Turchia e cogliere la «finestra di opportunità», sono questioni molto più ingombranti del #sofagate. Ma la domanda è: come può von der Leyen far rispettare quei diritti, che come lei stessa dice non sono negoziabili, se poi è arrendevole persino su una sedia? Il punto non è che sul divano finisce von der Leyen, è se con lei ci finiamo tutte. 

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