Continuiamo a discutere dell’opportunità o meno che il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, partecipi a quello che, con una patina di ipocrisia, continuiamo a descrivere come il Festival della canzone italiana.

Che la musica non sia più, da tempo, il core business di Sanremo è davanti agli occhi di tutti. L’amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes, lo ha detto chiaramente nella sua intervista a Repubblica di qualche giorno fa: «È evidente che Sanremo, soprattutto lo scorso anno, sia riuscito a parlare a tutto il paese. Il miracolo è stato quello di una vera e propria rinascita e molti dei meriti sono di Amadeus che è riuscito a compiere scelte musicali giuste e ad allargare enormemente l'interesse attorno al festival anche toccando temi sociali, politici e culturali rilevanti».

Insomma a nessuno interessa veramente chi salirà sul gradino più alto del podio (ve li ricordate i Jalisse e Povia?). Sanremo deve “parlare al paese” e, ancora meglio, far parlare il paese di Sanremo. È l’obiettivo di qualsiasi trasmissione televisiva che si rispetti. Chiamatela dittatura dello share se preferite.

I messaggi

Può questo meccanismo strettamente televisivo essere utilizzato per provare a far passare dei messaggi sociali, politici e culturali? Può un festival musicale occuparsi di guerra e pace ospitando il presidente di una nazione aggredita?

Può questo stesso presidente pensare che sia utile rivolgersi a un pubblico più ampio di quello che normalmente guarda tg e talk show per sensibilizzarli su ciò che sta accadendo (lo ha già fatto intervenendo ai Golden Globes, al Festival del cinema di Venezia, a quello di Cannes)?

La risposta non può che essere sì. E non staremo qui a ricordare tutti quelli che hanno usato la musica come un’arma contro le guerra. Né il fatto che alcuni di quelli che oggi si indignano per Zelensky a Sanremo provengono da storie che hanno fatto del cinema, della musica, dell’arte in generale strumenti di lotta politica.

I temi

LaPresse

Lo scorso anno a Sanremo si è parlato di mafia (con Roberto Saviano), di bullismo (Marco Mengoni e Filippo Scotti), di razzismo (Lorena Cesarini). Ci si è esaltati per la presenza di Drusilla Foer e per la sua «unicità» («diversità è una parola che non mi piace, è qualcosa di comparativo, esprime una distanza che non mi convince»).

E c’è chi si è arrabbiato per l’intervento di Checco Zalone sul tema della omotransfobia. Persino il “non” monologo di Sabrina Ferilli con il suo elogio della leggerezza non è passato inosservato. Nessuno ha contestato la legittimità di tutto questo. La “violazione” della presunta leggerezza del Festival.

Gorbaciov

Andando a ritroso nel tempo, scusate il gioco di parole, la musica non cambia. Si potrebbe perfino ricordare, e qualcuno giustamente l’ha già fatto, che sul palco di Sanremo, nel 1999 era già salito Mikhail Gorbaciov. Che in quell’occasione aveva detto: «Quando milioni di persone si uniscono davanti al video per partecipare a un evento come Sanremo che migliaia di giornalisti raccontano, sta succedendo qualcosa che riguarda la democrazia». Insomma, non sono solo canzonette.

E non sarà un’apparizione al Festival a svilire il messaggio di Zelensky. Che resta forte perché la guerra esiste, così come le vittime, i bombardamenti le città distrutte, le famiglie costrette a lasciare le loro case. O preferiamo non pensarci?   

    

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