“Stanchezza” è la parola che torna con più insistenza nella vita quotidiana al tempo del Covid-19. L’Organizzazione mondiale della Sanità ha diagnosticato come pandemic fatigue quella sensazione di affaticamento che proviamo come «naturale reazione a una situazione che dura da molto e di cui non si vede la fine».

La paura del contagio, unita alla paura del futuro, genera un effetto di sovraccarico fisico ed emotivo, a cui rischiano di soccombere soprattutto le persone che meno possono contare su fattori di protezione individuali e collettivi.

In più, per chi lavora da casa, per chi continua a svolgere le attività consuete attraverso canali virtuali, alla fatica generata dal virus si somma una forma specifica di sfinimento.

Anche questa ha un nome: è stata chiamata Zoom fatigue, dal nome della piattaforma più famosa del momento – ma gli effetti di altre applicazioni come Microsoft Teams, Google Meet o BlueJeans, sono del tutto simili.

In un lungo articolo intitolato The anatomy of Zoom fatigue, lo studioso di culture della rete Geert Lovink disseziona la nostra vita lavorativa (e relazionale) online.

L’ossessione per la performance

Accanto alla difficoltà di comunicare in mancanza di supporti non verbali e ambientali, ciò che emerge con forza è la richiesta di prestazione cui ci costringe la nostra immagine riflessa nello schermo.

«In pochi secondi ti trovi incapsulato in quell’io performativo che sei tu. Sto muovendo la testa per assumere una posizione più favorevole? Questo angolo mi dona?».

Il tempo del video aggiunge il suo carico esigente al regime di lavoro post-fordista già imperniato, da ben prima dell’era-Covid, sull’automotivazione e sulla performance individuale. Ma vi aggiunge anche un sentimento di continua inadempienza, per la distrazione, la tentazione del multi-tasking, e quella sensazione di disagio fisico e psichico che sempre ci accompagna.

«Zoom ha moltiplicato il lavoro, ha ampliato la partecipazione e ha inghiottito il tempo per scrivere, per pensare, per divertirsi e per le relazioni con la famiglia e gli amici», scrive Lovink. «I livelli dell'indice di massa corporea sono aumentati, gli stati affettivi e la salute mentale sono stati alterati, la coordinazione motoria è stata distrutta, insieme alla capacità del cervello di gestire il movimento attraverso lo spazio fisico come risultato dell’eccesso di tempo trascorso davanti allo schermo».

L’auto-sfruttamento

In un saggio di dieci anni fa, Byung-Chul Han parlava di «società della stanchezza» analizzando il disagio dell’individuo tardo-moderno in un mondo ossessionato dalla prestazione e della competizione.

Libero dai vincoli della società disciplinare del passato, privo di obblighi ma anche di tutele, l’individuo non accede a una vita più ricca di pensiero, cura o tempo per sé, ma si avvia verso forme di super-lavoro che aumentano fino all’auto-sfruttamento. Da qui, i disturbi tipici della nostra epoca, come depressione e sindrome da burnout.

È interessante notare che per Han questo paesaggio patologico distingue il nostro tempo da quello precedente, che chiama l’epoca «batterica» o «virale», superata grazie alla tecnica immunologica. Cioè, sostiene il filosofo, mentre il paradigma immunologico del passato era adeguato a descrivere il nostro rapporto con una minaccia estranea, con il «negativo», il paradigma odierno vede piuttosto un soggetto che si ammala per eccesso di «positività», per gli effetti della sovrapproduzione, dell’iper-prestazione, della comunicazione.

Alla luce della pandemia che sta flagellando il pianeta pare difficile liquidare come superata la minaccia dell’epoca virale, e sottovalutare la necessità di una reazione immunologica. Piuttosto, dobbiamo constatare la coesistenza dei due paradigmi, notando l’affaticamento da prestazione lavorativa che cresce, mentre il mondo rallenta per fermare il contagio.

La fatica per immunizzarci

Quella in cui stiamo vivendo la chiamerei perciò una società dell’“iper-stanchezza”, il cui lo stress fisico e mentale ha un’origine doppia: la fatica necessaria ad “immunizzarci” – a proteggerci, tenere lontano il virus e combatterlo –, e quella impiegata per adeguare ogni giorno l’immagine del nostro Io alla performance che ci è richiesta.

L’iper-stanchezza produrrà nuove malattie neuronali? Possibile. Ma nella pandemia, che mette a nudo la fragilità e il bisogno di cura dei corpi, il sovraccarico potrebbe anche generare una reazione: indurre persone iper-stanche a dirsi anche stufe, anzi arci-stufe, e a opporre un rifiuto alle domande di prestazione senza fine.

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