Uno tra i filoni più fecondi della ricerca storica sulla Resistenza è quello che evidenzia la dimensione transnazionale della lotta. Dagli anni Settanta si è studiata la presenza di partigiani sovietici in Italia; più di recente si è evidenziato il ruolo degli ex prigionieri alleati e jugoslavi. Ancora poco indagata è invece la presenza di disertori tedeschi, nonostante già nel 1960 Roberto Battaglia, il primo grande storico della Resistenza italiana, avesse evidenziato il rilievo di questo fenomeno. Le fonti in effetti sono poche e frammentate: molti di loro non hanno mai richiesto il riconoscimento come partigiani. E, come evidenziato da Filippo Focardi, ha pesato molto la tendenza a demonizzare il “cattivo tedesco” come forma di autoassoluzione del “bravo italiano”.

Riabilitare i disertori

Qualcosa è cambiato con gli anni Novanta: in Germania si è avviato un faticoso ma deciso processo di riabilitazione dei disertori; in Italia Una guerra civile di Claudio Pavone e Il disperso di Marburg di Nuto Revelli hanno mostrato che era possibile anche un’altra immagine dell’occupante. Nel nuovo millennio si sono quindi avviate alcune ricerche locali, come quella pionieristica di Marco Minardi su Parma; e oggi, grazie alla tesi di dottorato di Francesco Corniani, basata sulle fonti militari tedesche, abbiamo un quadro complessivo del fenomeno. I disertori della Wehrmacht durante la Seconda guerra mondiale sono oltre 30mila; e alcune migliaia anche in Italia (su un milione di soldati impegnati). Il fenomeno è quantitativamente abbastanza ridotto, anche a causa del pesante indottrinamento subìto dai tedeschi e del timore per la disciplina e la giustizia militare. Ma a maggior ragione sono significativi i casi di coloro che decidono di abbandonare la divisa o addirittura di passare al nemico.

Per lo più essi appartengono alle nazionalità non germaniche reclutate con l’occupazione (come nel caso dei cecoslovacchi dell’Oltrepò pavese), ma ci sono anche tedeschi di nascita. Il fenomeno riguarda tutta l’Italia del centro-nord; e ha momenti di particolare intensità nell’estate 1944 e nella primavera 1945, quando cioè le sorti della guerra volgono al peggio.

Oltre il fronte

Le motivazioni appaiono comunque molto diverse: all’appartenenza etnica e al tentativo di smarcarsi dal Reich al crepuscolo si associano in molti casi posizioni ideologiche antinaziste già latenti (come nel caso del pastore confessante Werner Goll nel genovese) o maturate a seguito della condotta di guerra (come per Heinz Brauwers a Torino); la stanchezza e la disperazione per le violenze subìte e commesse; in molti casi anche motivi personali, come l’incontro con una donna o un amico italiano; per non parlare degli opportunismi e delle contingenze.

Questa scelta, spesso sofferta e comunque rischiosa, può essere avvenuta con varie modalità: lo sbandamento, la resa, il passaggio deliberato del fronte. E porta a conseguenze diverse: molti disertori si consegnano al nemico, altri si nascondono, alcuni tentano di unirsi alle bande partigiane, incontrando non poca diffidenza, soprattutto se ufficiali.

Nelle testimonianze dei resistenti italiani non è raro imbattersi in riferimenti a disertori tedeschi che si uniscono alle loro formazioni. Molto spesso non rimane di loro che il nome di battaglia; ma in alcuni casi assumono un ruolo più rilevante, lasciando anche una documentazione più ricca. Ci sono infatti disertori che ottengono ruoli di comando e muoiono in combattimento, come Rudolf Jacobs in Lunigiana; altri ancora vittime di strage, come Günter Frielingsdorff, l’unico sopravvissuto al massacro di Maiano Lavacchio, nel grossetano. E in alcuni territori si costituiscono veri e propri distaccamenti di disertori: come il Bataillon Freies Deutschland in Carnia; o la banda di Karl Gufler in Val Passiria.

Spesso i corpi dei disertori caduti, come quello di Jakob Hoch nel piacentino, vengono seppelliti nei cimiteri civili italiani e non in quelli militari tedeschi; anche se poi negli anni Sessanta sono trasferiti nei grandi sacrari come la Futa o Costermano.

Restare o tornare

Tra quelli che sopravvivono al conflitto, alcuni decidono di rimanere in Italia, dove costruiscono una famiglia e trovano un lavoro. Altri tornano in patria, scontrandosi, soprattutto nella Germania Ovest, con l’ostilità delle comunità di origine e contro la severità della giustizia militare. All’Est alcuni come Willi Sitte o Walter Fischer diventano artisti di rilievo. Interessante anche il dibattito sulla diserzione tra gli intellettuali, ben espresso dalle polemiche di Winfried Georg Sebald su Alfred Andersch.

Poca è in generale la voglia di raccontare dei disertori; e in molti casi solo i figli hanno ricostruito la loro vicenda. Ora anche la storiografia comincia ad accorgersi di loro: come esponenti, a modo loro, della opposizione antinazista tedesca (come emerge nel recente volume curato da Federico Trocini, con un saggio sul tema di Anna Chiarloni); ma anche come membri della Resistenza italiana.

E con loro non vanno dimenticati i civili tedeschi coinvolti nella lotta di liberazione (come Heinz Riedt, il traduttore di Primo Levi); e i militari che non disertano, ma aiutano e proteggono i partigiani (come Hans Schmidt e i cosiddetti “cinque di Albinea”, scoperti e uccisi nell’agosto 1944).

Il libro

Alcune di queste storie trovano ora voce nel volume Partigiani della Wehrmacht, edito da Le piccole pagine, curato da chi scrive e da Iara Meloni, che offre un quadro di sintesi e tredici storie di diserzione individuale o collettiva tra Lazio e Alto Adige.

Un fenomeno dunque numericamente limitato, ma variegato e significativo dal punto di vista civile. All’epoca la presenza di partigiani provenienti dal Reich ha consentito agli italiani di capire che non tutti i tedeschi erano nemici. Oggi queste storie possono aiutare il confronto e l’incrocio delle memorie pubbliche nazionali, superando l’ approccio sovranista e la deriva vittimaria, nell’auspicio di un’Europa sempre più aperta e consapevole.

Ma il fenomeno ha anche un valore simbolico più grande: questi uomini hanno dimostrato che, anche nelle situazioni più drammatiche, è sempre possibile dire “no” alla violenza in nome di valori universali. Anche per questo meritano il nostro ricordo.

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