Se l’immaginario di Francesco Guccini spaziava tra la via Emilia e il West, quello del film che torna a riunire la squadra-rivelazione di La Stranezza, spazia tra lo scrittore siciliano e il regista americano, per la riscoperta di un pezzo di storia sepolto, da riscoprire, senza retorica celebrativa. Illusione e disillusione, speranza e cinismo: sono le due anime del film e una chiave di lettura per l’oggi. Con Ficarra e Picone alla Sordi e Gassman
Se l’immaginario di Francesco Guccini spaziava tra la via Emilia e il West, l’immaginario di L’Abbaglio, che torna a riunire la squadra-rivelazione di La Stranezza, spazia tra Leonardo Sciascia e John Ford. Tra questi due poli Toni Servillo, Salvo Ficarra e Valentino Picone protagonisti e Roberto Andò regista/sceneggiatore si misurano con lo sbarco dei Mille in Sicilia, nel maggio del 1860, e con la poderosa memoria di Alberto Sordi e Vittorio Gassman, i due eroi per caso de La Grande Guerra.
Nessun riferimento è puramente casuale per Andò, che è il più letterario dei nostri autori, ma tutto va reinventato. Magari per insinuare dubbi e domande sul nostro presente, alla maniera di Sciascia. Che è poi l’autore di Il silenzio, racconto uscito nella raccolta postuma di Adelphi Il fuoco nel mare, alla base del film. Nell’epica favoletta sull’impresa garibaldina che abbiamo studiato alle medie non c’è traccia del ruolo-chiave svolto dal colonnello Vincenzo Giordano Orsini (nel film Toni Servillo) e della mission semisuicida affidata alla sua improbabile "colonna” di militi impropri e feriti: depistare le truppe borboniche guidate dal colonnello svizzero Von Mechel (nel film è un grande attore francese, Pascal Greggory) e attirarle nel cuore della Sicilia, mentre l’Eroe espugnava Palermo.
Il diversivo (l’abbaglio del titolo, che ha molte letture) terminò in quel di Sambuca, nel solidale silenzio dei suoi abitanti più poveri. C’è un passaggio di Sciascia direttamente citato nel film: «E più lo colpiva che in queste condizioni di vita non diverse da quelle della capra, dell’asino, la gente conservasse intatti ed alti i sentimenti umani: la pietà, la gentilezza, il coraggio».
In bilico tra scrupolosa cronaca storica e fantasia dispiegata, L’Abbaglio immagina l’imprevedibile sinergia tra un Orsini mazziniano fervente (disertore dalla sua aristocratica schiatta) e due picareschi disertori incalliti, Domenico Tricò e Rosario Spitale, ossia Ficarra e Picone. Il film va in sala con O1 Distribution dal 16 gennaio. E se La stranezza è stato il film italiano più bello e più amato del 2022 c’è solo da augurargli il più felice dei cammini.
Il Risorgimento che non ci insegnano
È contro-storia. O meglio: storia sepolta da riscoprire, senza retorica celebrativa. Scriveva Jorge Luis Borges che quando ci sono nell’aria cambiamenti epocali sperimentiamo la coesistenza di dramma e commedia. Andò – che come per il suo film pirandelliano scrive a sei mani con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso – fa tesoro. Nel suo Risorgimento – parole sue – «si incrociano come in una danza le illusioni e le disillusioni, incarnate dai tre personaggi principali, quello vero e quelli immaginari».
È quel 1860 in cui Tomasi da Lampedusa colloca Il Gattopardo, e Orsini-Servillo è a modo suo un anti-Gattopardo portatore di illusioni, un aristocratico rivoluzionario che disdegna le offerte mafiose di aiuto della nobiltà «più corrotta e ignorante d’Europa».
Ed è tormentato dal dubbio: fino a che punto si spingerà la liberazione promessa da Garibaldi, con le terre distribuite tra i contadini? E se tutto cambiasse perché tutto resti uguale?
Domenico Tricò (Ficarra) e Rosario Spitale (Picone) si imbarcano a Quarto con le Camicie Rosse da spudorati impostori. Stanno solo scroccando un passaggio gratis. Tricò è un bracciante emigrato che vuole tornare a sposarsi. Spitale, che uno zio barone ha fatto studiare, è un baro in fuga dai gendarmi. Nello spettacolare sbarco a Marsala del film (c’erano due navi borboniche e una francese a cannoneggiare, sui libri di scuola sembra una passeggiata) disertano a gambe levate da cacasotto, in coppia ostile e casuale.
Due impostori e due imbonitori: così Orsini li ha catalogati da subito. Da imbroglioni trovano pane e asilo in un convento, truffano a carte i piccioli delle questue (Picone) e si fanno cacciare. Solo per scoprire che l’amata di Salvo è già moglie e madre felice. La Grande Storia, in parallelo, ha macinato lo scontro di Calatafimi e persuaso il Garibaldi di Tommaso Ragno – uno dei più magnetici visti al cinema – che solo dirottando le preponderanti truppe regie potrà sguarnire Palermo. Per l’inalterabile sfiga degli sfigati, i due codardi vengono riacciuffati giusto in tempo per diventare pedine di quel gioco di prestigio disperato e geniale, il diversivo tattico della “colonna Orsini”. Due pedine capaci però di salvare un paese, Sambuca, e le camicie rosse che nasconde a suo rischio.
A proposito di John Ford
John Ford con L’abbaglio c’entra, e nemmeno poco. Non solo perché il regista sostiene che questo film «è il suo western» e che questa Sicilia «è una Frontiera». Ford aveva il pallino delle canzoni tradizionali, quelle che oggi chiamiamo folk songs. Erano parte integrante della sua epica e spesso hanno fornito i titoli ai film: My Darling Valentine (Sfida infernale) e She Wore a Yellow Ribbon (I cavalieri del Nord Ovest) sono solo i casi più celebri.
Il film di Andò è intarsiato di canti di popolo. «Ho indagato – dice – nel patrimonio di canzoni popolari in dialetto fiorite all’epoca intorno alla figura di Garibaldi. Per i “picciotti” sfruttati era come Gesù Cristo, come Che Guevara, un messia arrivato per liberare la Sicilia dal giogo feudale».
Illusione e disillusione, speranza e cinismo: sono le due anime del film e una chiave di lettura per l’oggi. «Falcone lo ha detto meglio di tutti: “Qual è il peggior nemico dei siciliani? Non credere fino in fondo nelle idee». E sul riscatto dei due antieroi lo sguardo è ben diverso da quello di Monicelli.
«I veri vincitori sono sempre i Don Abbondio, come ne I promessi sposi. È così che l’Italia si tiene in piedi, anche quando sembra sull’orlo del baratro. Li senti fratelli, ma sai che questo è un problema». «Stiamo andando incontro a un’epoca in cui a fare opinione saranno gli imbonitori», profetizza Orsini. No spoiler, ma la battuta finale è illuminante: «Povera Italia, che abbaglio...».
Come Sordi e Gassman?
Ficarra e Picone come Sordi e Gassman, sessantacinque anni dopo? Mai chiederlo a loro. «Quelli sono due mostri inarrivabili, non ci mortificare!». «Non ci ho pensato mai, sennò andavo nel panico». La sfida, vinta, però è giocata su quel medesimo equilibrio prezioso tra commedia e dramma. Attori drammatici allora?
Ficarra: «Sai bene come la penso: le etichette stanno bene solo sui pacchi. Il modello di Monicelli è un affettuoso richiamo di scrittura, e la nostra coppia ha in comune con quello l’inconsapevolezza delle grandi scelte, quelle che compi senza coglierne la portata».
Picone: «Contava però capire quei personaggi di ‘”furbi”, e volergli bene. Mi sono chiesto quante sconfitte e soprusi avevano ingoiato per diventare sordi a ogni ideale di giustizia sociale. Non si convertono mai, non diventano garibaldini. A muoverli è solo l’istinto di proteggere gente affamata e sconfitta come loro».
È un ragionare insieme che si prolunga. Passa per “gli ultimi” di Verga e per quella novella amara, La libertà. Passa per le infinite rivolte soffocate nel sangue di una Sicilia dove il feudalesimo viene abolito nel 1812 ma sopravvive fino alla metà del Novecento. Manca lo spazio per darne conto. Ma fa capire che cosa, oltre al talento, fa di un attore un vero attore. Senza etichette.
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