Oggi, mentre scrivo, è il 21 di agosto, e la sera ventunesima di agosto è per forza di cose la vigilia del giorno ventiduesimo. Nella città in cui mi trovo, che poi è la mia città di origine, che si chiama Vittorio Veneto, in quel momento a cavallo tra ventuno e ventidue si festeggia una santa. Scrivo “una”, con l’articolo indeterminativo, perché il santo ufficiale della città è un altro, è San Tiziano, che cade il sedici gennaio.

Ma il ventidue agosto è il turno di brillare della Santa patrona del quartiere di Serravalle, che si chiama Augusta, e per qualche motivo ha finito con l’avere una festa più grande, giostre più numerose, fuochi più potenti (o così, almeno, ci sembra). Sant’Augusta agisce nella prima metà del V secolo ed è verosimile che non sia mai esistita. A noi però la realtà non interessa, dunque resta invariato il fatto che la Santa si chiama Augusta e che era – e perciò sempre sarà – un’adolescente, quasi una bambina.

La leggenda

La leggenda narra che si trattasse di una giovanissima pagana figlia di un re pagano, e che abbia iniziato a fare quello che il nuovo fa per autodeterminarsi: cercare il suo posto nel mondo per opposizione. I capitelli posti lungo il sentiero che porta alla sua chiesa, dicono che girasse la notte con la veste colma di pani per i cristiani perseguitati ma che, scoperta dalle guardie, i pani si trasformarono miracolosamente in fiori. Altre storie raccontano che si trasformassero in pietre.

Ho sempre pensato che questa doppia versione fosse indicativa di qualcosa, ma non avevo stabilito di che cosa. Adesso credo che sia indicativa del fatto che per trovare il nostro posto ci servono sia i fiori che le pietre. E che così è sempre stato.

Come tutte le storie di martiri, anche quella di Augusta non finisce bene. Finisce che viene decapitata dal padre. La decapita con successo dopo aver provato a ucciderla sulla ruota, dopo averle strappato i denti, dopo averla fatta rotolare da un dirupo chiusa in una botte, ma niente, di morire non ne voleva sapere.

La leggenda di Augusta narra che il padre si sia pentito e convertito nell’istante in cui ne ha vista cadere la testa. Tutt’oggi al santuario c’è una teca dove sono conservate le sue ossa. Per molto tempo, ogni volta che le ho guardate mi sono chiesta chissà di chi sono. Dal 2021, invece, penso a Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti (Mondadori) e alla pagina dove sta scritto: «Da quel momento le famiglie in cerca di ossa diventano tre, ossa di principesse. Ossa di studentesse».

E ancora «Non siamo altro che mucchi di ossa, ragazze». Sono almeno due anni che penso di voler scrivere, una volta o l’altra, che uno dei grandi meriti del romanzo di Ciabatti è quello di aver narrato il fenomeno dell’estetizzazione del rapimento femminile (del ratto della femmina) perpetrata dai media di massa negli anni Ottanta e Novanta. Poi non l’ho mai fatto, lo faccio ora.

Stamattina (è la mattina del 21 agosto, ricordiamolo) salita a rendere omaggio alla teca delle ossa di chissà chi (seguendo la narrazione di Ciabatti potremmo dire di tutte noi) ho pensato anche ai letti di deliquio raccontati in Veronica e il diavolo di Fernanda Alfieri (Einaudi, 2021), ai diari di un esorcismo svoltosi a Roma nel 1834, e a un’iscrizione che si trovava presso l’Arcispedale della Consolazione.

Rivolgendosi alle pazienti malate e infortunate diceva che le donne devono tacere: il silenzio è il loro migliore ornamento, perché «nell’infanzia del mondo, fin da quando la donna parlò, parlò male».

Calata la sera sul ventunesimo giorno di agosto andrò in piazza per vedere i fuochi, che sono tradizionalmente eterni, lunghissimi, estenuanti (o così, almeno, ci sembra), che sono così sentiti che a un certo punto di molti anni fa un anziano signore è andato a farne l’imitazione alla Corrida di Corrado (in un’altra vita ancora lo si incontrava in qualche bar, e con suo grande sollazzo gli si poteva chiedere di esibirsi in quella straordinaria performance).

Alla fine dello spettacolo pirotecnico, assieme ad altre voci che fino a un attimo prima avevano giocato al gioco del lamentarsi (di quanto i fuochi sono eterni, lunghissimi, estenuanti) griderò “Viva la Santa!”; proprio io che pur non essendo atea sono comunque una senza dio, perché non credo nel dio degli uomini (e non credo nell’autorità ma, al massimo, nell’autorevolezza).

Viva sempre la Santa così come la dannata, perché che siamo cristiane decapitate, ossesse contese, eretiche bruciate, grandi intellettuali disprezzate, persone seviziate, stuprate, torturate, uccise, collocate in un passato talmente lontano da essere irreale o infinitamente riprodotte dai giornali una settimana fa, appare evidente che non esiste un modello comportamentale consono, perché a un contenitore, a uno strumento, non è dato di essere. Appare evidente che ci servono le pietre.

© Riproduzione riservata