È morto Marco Santagata, uno dei migliori critici letterari che avessimo, soprattutto per quel che riguarda i primi secoli della nostra tradizione. Ho conosciuto Marco al liceo, stesso anno ma sezioni diverse. Tra noi ci fu subito una di quelle rivalità che sono comuni tra ragazzi ambiziosi e dai temperamenti opposti. Poi, alla Normale di Pisa, la rivalità assunse toni di franca inimicizia, almeno da parte mia.

Ma restava il fatto che ci capivamo a un batter di ciglia, e prendevamo in giro le stesse persone. Io stimavo il suo lavoro e lui stimava il mio, io sempre di più diventavo uno scrittore con interessi critici, lui un critico che ci teneva a essere anche scrittore. Ma il suo volersi in bilico tra due versanti, quello critico e quello letterario, è stata la sua forza nel rinnovare un campo di studi che risentiva ancora molto del clima accademico.

Mostri sacri

Marco ha avuto il coraggio e la capacità di provare a entrare dentro il processo creativo di mostri sacri come Dante e Petrarca, trattandoli come persone reali e non come monumenti. Leggendo alcuni suoi libri più romanzeschi, Il copista o Come donna innamorata, si entra nella testa di Petrarca e Dante nel momento in cui stanno componendo le loro opere, con tutti gli entusiasmi, i ripensamenti, i risarcimenti immaginari, i sensi di colpa che ogni autore conosce. Altro che ‘classici’.

Lo stesso accade, con diverso stile, in certi libri di andamento più saggistico, come Per moderne carte e L’io e il mondo; anche lì ci sono ipotesi interpretative molto audaci e provocatorie, ma col freno dell’obbligatoria dimostrazione storico-filologica. Diciamo che ha usato il romanzo come proseguimento della critica con altri mezzi, come scusa per sperimentare quella critica "selvaggia” che in genere solo gli scrittori sanno fare su altri scrittori; ma con un armamentario culturale che gli scrittori "puri” in genere se lo sognano.

Leggere Santagata

Se qualcuno vuole sapere perché, nella lunga e misteriosa processione sulla cima del Purgatorio, Dante riviva un ricordo preciso della propria giovinezza fiorentina, o perché nella figura di Matelda cerchi di riparare a un torto che sentiva di aver fatto all’amico e maestro Guido Cavalcanti, o ancora in che senso il sonetto La vita fugge e non s’arresta un’ora di Petrarca sia un sintomo di quella che modernamente chiameremmo depressione, ebbene non deve far altro che leggere Santagata, superando la difficoltà di una scrittura che non smette di essere rigorosa.

Marco si è dedicato anche a lavori più tradizionali, ha lasciato un contributo importante sulla biografia dantesca, ha scritto su Boccaccio, il Quattrocento è stato un suo campo di studi fin dalla lontana tesi di laurea. Verso gli anni Novanta mi propose di preparare in due una storia della letteratura italiana, lui avrebbe coperto i primi quattro secoli e io avrei dovuto occuparmi dei successivi, più o meno sul genere del manuale che ha poi pubblicato con Alberto Casadei.

Volerci bene

Io ero ormai troppo preso dalle mie autofictions e non se ne fece nulla. Ma i suoi lavori sulla Vita nuova mi hanno suggerito molte cose sull’autofiction, così come credo che il mio lavoro romanzesco gli abbia fornito idee per la sua critica.

Per me, se ne va il mio miglior nemico, un uomo con cui il confronto di pensiero è stato ininterrotto. (E da vecchi abbiamo perfino trovato il tempo di volerci bene). Per gli studi letterari, se ne va un esempio di come la letteratura non possa fare a meno delle idee, e la critica non debba chiudersi agli slanci più temerari di immedesimazione creativa. Addio Marco, spero che chi si interessa alla letteratura continui a considerarti attuale.

                  

© Riproduzione riservata