Quello che sfilerà nell’eterna bellezza di Roma – sciupata, strapazzata, e per questo ancora più struggente – è un Giro d’Italia che si è consegnato docilmente al suo padrone, lo sloveno Tadej Pogacar, in maglia rosa dal secondo giorno.

Prima di andare alla conquista del Tour de France, che fra un mese partirà per la prima volta nella sua storia dall’Italia, il nuovo Merckx ha sfilato per le nostre strade con la stessa sfrontatezza con cui Paolo Sorrentino ha fatto il suo ingresso al Festival di Cannes. In assenza di pathos sul nome del vincitore finale, la corsa è stata tutt’altro che noiosa.

Non sono stati gli avversari, e neanche la lotta per un posto sul podio, a rendere avvincente questo Giro di Pogacar: è stato il privilegio di vedere un fuoriclasse maneggiare la sua materia con padronanza assoluta. Ma anche accorgerci che dietro il sole c’erano i corridori italiani: mai così pochi in questo secolo (43) eppure vivi. Anche se devono andare a correre all’estero perché non ci sono squadre World Tour nel nostro paese. Non sono in fuga soltanto i cervelli, ma anche le gambe.

Largo ai ventenni

«Quello che abbiamo visto è sinceramente un po’ al di sopra di quanto potevamo aspettarci», dice Davide Cassani, che in questo Giro è tornato nel suo ruolo di commentatore tecnico per la Rai, che aveva lasciato dieci anni fa per diventare commissario tecnico della nazionale.

«Non sappiamo ancora chi prenderà il posto di Nibali, non conosciamo il nome del prossimo italiano che vincerà un Giro, ma finalmente in classifica troviamo dei ragazzi, e non i soliti veterani come Caruso e Pozzovivo».

Antonio Tiberi lo chiamavano già Nibali quando era juniores e vinceva tutto. Laziale di Gavignano, ha 22 anni e debuttava al Giro. Senza paura, si era dato come obiettivo il podio. L’altro traguardo, non dichiarato, era quello di far dimenticare la storia per cui era finito sulle cronache non sportive, due anni fa, quando aveva ucciso un gatto a San Marino giocando con una carabina ad aria compressa. Episodio sfortunato, più di tutti per il gatto ma anche per lui che aveva perso il posto nella sua squadra di allora, la Trek.

Episodio per cui Antonio viene ancora fischiato e maltrattato: sui social ma anche sulle strade. Pogacar, che a casa ha un gatto amatissimo, ha però molto elogiato l’unico corridore che ha avuto il coraggio di attaccarlo. Quanto a Tiberi, riconosce che lo sloveno è un extraterrestre ma ha promesso che continuerà a impegnarsi per raggiungerlo sul suo pianeta. «Ha dimostrato di aver fatto quel passo avanti che ci aspettavamo da lui, ma ha bisogno di almeno un paio d’anni per essere al top», dice ancora Cassani, da sempre sostenitore della teoria secondo la quale gli italiani hanno una maturazione più lenta.

Alle spalle di Tiberi, il veneto Filippo Zana, quasi coetaneo di Pogacar, Lorenzo Fortunato, famoso per la sua vittoria al Giro 2021 sullo Zoncolan e per essere di Castel de’ Britti come Alberto Tomba, e soprattutto il valtellinese Davide Piganzoli, ventun anni, che Ivan Basso ha definito «il corridore più forte della sua generazione».

Il devoto Pellizzari

Se Piganzoli è stato costante e ha dimostrato di sapere già come si fa classifica, a rubare gli occhi è stato soprattutto Giulio Pellizzari, il più giovane del gruppo con i suoi vent’anni. Marchigiano, figlio di un poliziotto e di una maestra, a Napoli si è preso l’influenza e ha dovuto ricorrere agli antibiotici, ma ha tenuto botta e nella terza settimana scintillava.

Nella tappa di Santa Cristina era da solo in testa, a 700 metri dal traguardo si è girato e ha visto qualcosa di rosa. «Ho pensato: bastardo, ancora…». Era Pogacar, il corridore che il quindicenne Giulio era andato a cercare a una Strade Bianche per farsi un selfie. Persa la vittoria, Pellizzari dopo il traguardo è andato a cercare lo sloveno per farsi dare gli occhiali rosa da regalare a suo fratello.

E Pogacar, colpito da tanta devozione, si è spogliato della maglia rosa e gli ha dato anche quella. «Non ha paura di niente e di nessuno», dice Cassani di Pellizzari. Questi ragazzi corrono di fianco a un alieno che sta facendo la storia, uno che li ha ispirati e che ispirerà generazioni future di corridori.

I fratelli della pista

Il Giro degli italiani è stato illuminato anche dai pistard, gli stessi che tre anni fa hanno vinto l’oro olimpico – con il record del mondo – nell’inseguimento a squadre. L’Italia è l’unica nazionale che in pista schiera stradisti di valore, tre quarti del quartetto d’oro di Tokyo sono stati protagonisti al Giro. Jonathan Milan, che un anno fa al debutto aveva vinto la maglia ciclamino di miglior velocista, in questo Giro si è addirittura migliorato a fronte di una concorrenza più robusta, vincendo tre tappe (e manca ancora lo sprint finale) e arrivando altre tre volte secondo.

A lanciare le sue volate la Lidl-Trek ha ingaggiato Simone Consonni, uno dei suoi fratelli di pista. «Se Milan è cresciuto, Consonni ha trovato la sua dimensione, in quel ruolo è veramente forte, una sicurezza». Quanto a Filippo Ganna, il fratello maggiore di tutti loro, non ha preso la prima maglia rosa come sognava ma con un primo e un secondo posto nelle cronometro ha rimesso la chiesa al centro del villaggio e va a Parigi – dove tornerà in pista col quartetto ma correrà anche per il titolo olimpico a cronometro – con una fiducia diversa.

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