«La verità, bisogna pur dirlo, è intollerabile, l'uomo non è fatto per sostenerla» scriveva Emil Cioran nel 1969 sui suoi quaderni. Il povero Emil – che già faceva una certa fatica – non avrebbe retto un solo giorno in un mondo in cui esiste un’app che svela la verità su tutto, come accade nell’ultimo romanzo di Yari Selvetella, La mezz'ora della verità, edito da Mondadori.

L’app in questione si chiama Varami, un termine che affonda le sue radici etimologiche nel sanscrito e equipara il concetto di vero a un atto di volontà. In questo caso si tratta di installare Varami sul proprio smartphone e vedere che succede. Come si può immaginare, non succede niente di buono. Ammesso che non siate sostenitori del caos.

Mai come in questa fase del progresso tecnologico l’umanità si è interrogata sul significato puro di verità. Vista da una certa prospettiva, sembra un’impresa immane, incredibilmente affascinante. Milioni di anni di evoluzione, ci hanno portati oggi a elucubrare sulla post-verità durante una pausa pranzo qualsiasi o nelle chiacchiere di circostanza prima del corso di posturale.

Deridiamo questo o quel quotidiano che di tanto in tanto cade nell’inganno di un’immagine generata da un’intelligenza artificiale, ci mettiamo le mani nei capelli quando la zia ci inoltra non ironicamente un deepfake che gira su Instagram, hai visto questo hai visto quello, ma hai capito che quello è finto?, fino a toccare le vette di cinismo irraggiungibili del mio fruttivendolo di fiducia, un contadino di Velletri secondo il quale sono «tutte cazzate». Di qualsiasi cosa si tratti: tutte cazzate, è semplice. Ha delle uova fresche che sono fenomenali e non ho alcuna intenzione di contraddirlo.

Qualche giorno fa mi è capitata nel feed una vignetta del New Yorker. Un uomo visibilmente malato, riceveva la diagnosi dal medico: lei sta prestando troppa attenzione alla realtà. In altre parole di verità ci si ammala, di verità si impazzisce, chi si fa gli affari suoi campa cent’anni. Tutto il contrario di quello che accade nel condominio dove vive Valentino Ricci, la voce narrante alla quale Selvetella ha affidato l’ingrato compito di mediare la verità che giunge al lettore.

L’escalation ballardiana è rapida e verticale. Tutti i giorni alle 18:00 in punto Varami diffonde la verità, per mezz’ora appunto, e lo fa attraverso tutti i mezzi di comunicazione possibili, analogici o digitali che siano. Si evolve, si espande, diventa ingestibile. Implodono le piccole omissioni, le incertezze o le mistificazioni che sorreggono gli equilibri all’interno di una micro-comunità, vengono rapidamente meno i confini tra pubblico e privato mettendoci di fronte all’irreparabile. La verità diventa una piaga sociale, senza differenze di classe né di età, tra i tanti personaggi che incontriamo, nessuno è al riparo. Anzi, non proprio tutti. Quello che non si sa, è chi c’è dietro a Varami. Un potere oscuro? Una forza distruttrice? Un capitalista spietato? Parte la ricerca e, ancora una volta, la verità si frammenta, prende mille direzioni e torna sfuggente.

La mezz’ora della verità si conclude con una svolta intimista tanto inaspettata quanto emblematica. Siamo poveri individui in balia del caos e siamo infimi, negletti, non all’altezza delle grandi questioni che un palese errore genetico ci ha dato la possibilità di processare. Probabilmente è proprio in questo fascino decadente che risiede tutto il potenziale narrativo delle storie.

«Ognuno sa che potrebbe ammalarsi, che potrebbe morire, entrare in una statistica, in una terapia intensiva, in una cifra divulgata all’ora convenuta, alla mezz’ora della verità. Dentro o fuori. Falso o vero. Un meccanismo che fa stare male, inappellabile come appare, senza rimedio». Prosegue impassibile Cioran nei suoi quaderni. No, non è vero. È il Valentino Ricci di Selvetella. O forse no, chi se lo ricorda. Ci penserà qualcun altro a verificare.


© Riproduzione riservata