Ricordate la vigna di Renzo nei Promessi Sposi? In piena pestilenza, Renzo, costretto a fuggire dopo essersi infilato nei tumulti a Milano, torna al suo paesello dal quale manca da due anni. Passa accanto al campetto dove aveva una vigna, e la trova prevedibilmente saccheggiata da mano umana.

Soprattutto, però, è colpito dal dilagare di piante spontanee in lotta furibonda tra loro per prevalere l’una sull’altra, intente «a rubarsi il posto per ogni verso». Di quelle erbe Alessandro Manzoni fa il nome a una a una, perché era appassionato di botanica, ma è chiaro che gli interessa soprattutto la morale della storia: avvilucchiandosi l’una all’altra, in una lotta per conquistare un poco d’aria e di luce, quelle piante «si tiravan giù pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio».

Curiosamente, negli stessi anni, Giacomo Leopardi descriveva un giardino, in apparenza ridente, come un piccolo inferno, in cui non c’è pianta che non ferisca l’altra, non soffra, non si avvii a morire «e se questi esseri sentono, o per meglio dire sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere».

Altri tempi. Oggi, grazie ai progressi della scienza, abbiamo dell’universo vegetale un’immagine del tutto diversa. Ci appare come un mondo idilliaco, salvifico, di esseri intenti a farsi il bene l’uno con l’altro e soprattutto a fare il nostro, di bene. Se prendete i libri del neurobiologo vegetale Stefano Mancuso, il mondo delle piante appare veramente come un Eden (del resto che cosa era l’Eden se non un giardino?).

Non solo: a leggere i suoi libri, che sono diventati dei veri best-seller (l’ultimo da Laterza, La nazione delle piante, ha venduto decine e decine di migliaia di copie), dalle piante abbiamo tutto da imparare, anche la struttura sociale, il modo di prendere decisioni, l’organizzazione politica. Le piante avrebbero trovato da tempo «le migliori soluzioni alla maggior parte dei problemi che affliggono l’umanità» (Mancuso, Plant Revolution, Giunti).

Conclusioni logiche o forzature?

I motivi di questo radicale cambiamento di prospettiva sono abbastanza evidenti. Sappiamo oggi che le piante sono essenziali non solo alla sopravvivenza nostra, ma a quella di tutto il vivente. Sappiamo che proprio grazie alle piante si può contrastare l’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera. E sappiamo anche che sono state proprio loro, le piante, a creare l’atmosfera ricca di ossigeno che ha consentito la diffusione della vita sulla terra.

Nessuno, naturalmente, si sogna di negarlo. Ma dalla funzione delle piante nell’equilibrio della vita terrestre segue l’applicabilità della organizzazione del mondo vegetale a quello umano? Si tratta di una conclusione logica? Oppure è una forzatura? Magari, anzi sicuramente, a fin di bene. Ma forzare il ragionamento non fa mai bene. E di forzature i libri di Mancuso sono pieni.

Cominciamo dalla più eclatante. Se c’è una cosa di cui Mancuso è profondamente convinto (e noi con lui) è la profonda, irriducibile diversità delle piante rispetto agli altri esseri viventi, agli animali non umani e naturalmente a quell’animale che è l’uomo. Direi che questa è la leva profonda di tutto il suo approccio al mondo vegetale. Sta bene.

Ma come la illustra Mancuso? È presto detto: col più sfrenato dilagare di una terminologia antropomorfica. Le piante fanno tutto quel che fanno gli animali (umani e non), solo che lo fanno meglio. Le piante, ovviamente, hanno memoria, come la abbiamo noi. Si abituano, come ci abituiamo noi. Comunicano. Calcolano. Vedono. In una parola, percepiscono. E va bene.

Ma sono anche intelligenti, pur non avendo ovviamente un cervello (anzi Mancuso è incline a pensare che sono intelligenti perché non hanno un cervello, il cervello essendo – testuale – «uno svantaggio evolutivo»). Ma perché sono intelligenti? Perché sanno sopravvivere e possono sopravvivere meglio di tutti gli altri esseri viventi. Non per nulla sono più antiche degli animali. E siccome lo scopo della vita è la vita, ed è più intelligente chi meglio soddisfa lo scopo finale della sua esistenza, allora le piante sono più intelligenti dell’uomo. Sembra un sillogismo, no?

Peccato che sia un sillogismo da biologo: Mancuso non sembra tener conto che per l’essere umano c’è questo piccolo problema, che l’essere umano capisce che l’esistenza per l’esistenza, che è la legge della natura, non smette perciò di essere per lui un rovello, dato che uno scopo deve essere una cosa diversa da quella di cui è scopo. E sembra non avvertire che quell’idea della pura sopravvivenza, della nuda vita come scopo della vita per noi umani è, prima che contraddittoria, raggelante.

I problemi più sostanziali, comunque, cominciano quando Mancuso trasforma le piante in modelli per la vita sociale e politica. Veramente anche qui se la fa un po’ facile, perché se la prende con la burocrazia, e ditemi voi chi non è disposto a prendersela con la burocrazia. Però, quando legge che la burocrazia nasce dal fatto che abbiamo introiettato il modello gerarchico degli animali e non quello modulare degli organismi vegetali, perfino uno che ha appena avuto problemi a rifare la carta di identità comincia a nutrire qualche dubbio.

Non sarà che magari c’è anche qualche motivo storico, economico, sociologico, psicologico? I dubbi diventano irritazione quando Mancuso ne ricava l’apologia della democrazia diretta e, senza trattenersi, spiega che ormai questa è resa possibile da Internet.

Vi ricorda qualcosa? Mancuso è fiducioso che un consesso prende la migliore decisione quando è composto da molte persone (evidentemente non va alle riunioni di condominio), e corrobora questa tesi con l’esempio di scienziati che lavorano allo stesso problema o di medici che cercano in gruppo la giusta diagnosi. Dimentica il piccolo particolare che gli scienziati e i medici ci guadagnano a lavorare in gruppi perché (e solo nella misura in cui) hanno lo stesso fine, mentre, a meno di non essere ingenui, gli attori del confronto politico sono portatori di interessi differenti, non solo di divergenze di opinione.

Dato che Mancuso trova che il mondo umano, in genere, è «retto da regole pazzesche» non gli è difficile pensare che il mondo vegetale ci offra alternative migliori. In particolare, quello che possiamo apprendere o copiare dalle piante è l’organizzazione cooperativa, la collaborazione, il mutuo soccorso. «Le piante sono maestre della cooperazione e attraverso alleanze e comunità sono riuscite a costruire società mutualistiche in qualunque ambiente della terra».

Darwinismo sociale

Non abbiamo, naturalmente, motivo di dubitarne, dato che lo dice un biologo. Ma quando Mancuso ne deduce che non ci resta che adottare il loro modello e trasferirlo alla vita sociale ed economica, non sta più ragionando da biologo. Sta suggerendo che una determinata organizzazione sociale è migliore perché modellata su quella che, in natura, ottiene i migliori risultati.

Che è ragionare esattamente come ragionavano i darwinisti sociali della fine dell’Ottocento, quando sostenevano che la lotta e la competizione sono la legge della società umana perché la lotta per la vita è quella che ha consentito la sopravvivenza del più adatto.

Naturalmente il valore guida è cambiato (la cooperazione in luogo della competizione) ma la struttura del ragionamento è perfettamente identica. Lo è a tal punto che Mancuso introduce la propria apoteosi della cooperazione vegetale dopo aver contestato il punto di vista del darwinismo sociale, senza accorgersi che così mostra che si tratta di due argomentazioni perfettamente speculari.

Immaginiamo la risposta di Mancuso. I darwinisti sociali erano dei rozzi, e il loro modello scientifico inattendibile: anche se ragiono come loro, lo faccio a partire da un modello scientificamente valido. Può darsi. Ma confessiamo che un piccolo dubbio, anche su questo argomento, ci rimane.

Siamo fortemente tentati dal credere che in natura si trovino entrambe le cose, la cooperazione e la sopraffazione, la simbiosi e la predazione, la collaborazione e la competizione. Anche perché Manzoni e Leopardi, dopotutto, proprio due imbecilli non erano.

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