Eroi-nomane della satira. Eroi-nomade della satira. Il 27 luglio 1983 Andrea Pazienza viene intervistato da Luca Raffaelli per Ottovolante, un inserto satirico di Paese sera che è stato pubblicato per soli dieci numeri nell’estate del primo governo guidato da Bettino Craxi.

Raffaelli voleva scrivere eroi-nomade, ma per un refuso esce fuori eroi-nomane. L’errore colpisce nel segno al punto che Pazienza rilancia con una vignetta nella quale scrive: «Finché esisteranno al mondo dei Luca Raffaelli il mio sarà un mestiere difficile». Che Andrea Pazienza sia eroi-nomane non è certo un segreto. Le sue vignette, le sue storie, sono piene di riferimenti diretti all’eroina.

Ma non è quello che gli premeva dire in quel momento, nomade semmai, soggetto mobile, che non vuole essere identificato interamente in quella che è una parte importante della sua vita, l’eroina appunto. Non a caso uno dei più bei libri scritti su di lui è quello di Stefano Cristante che si intitola L’arte del fuggiasco, perché Pazienza, per tutta la sua breve vita, sembra voler scappare da ogni definizione che lo inchiodi a qualcosa. Anche alla sostanza che causerà la sua morte.

Il Settantasette

Mentre in Germania, negli stessi anni, faceva furore la biografia di una giovane donna agganciata, come tutti i suoi amici, dall’eroina, Christiane F, da noi, in Italia, è Andrea Pazienza che (di)segna l’immaginario degli anni Ottanta descrivendo la vita quotidiana del “tossico”. E anche se lo fa per una minoranza di persone, perché la maggioranza pure in Italia legge Noi i ragazzi dello zoo di Berlino di Christiane F. e vuole pensare che il “drogato” sia sempre un disperato, la sua voce rimane ancora oggi uno dei contributi più intelligenti e poetici per ricostruire l’autobiografia di una generazione, quella troppo giovane durante il Sessantotto, perfetta per incarnare la crisi e il riflusso dei tardi anni Settanta, dopo essere passata attraverso il movimento del Settantasette.

Sul Settantasette e il clima culturale che lo ha accompagnato vale la pena dare la parola a Filippo Scòzzari. «Nottata dopo nottata, numero dopo numero, mi veniva confermato un sospetto tremendo: il movimento era sostanzialmente triste, uggioso. Cupi. Incazzati. Non c’erano spiritosi. Tutti si prendevano bestialmente sul serio». Ecco. Una sintesi (quasi) perfetta di un universo giovanile nel quale l’eroina si diffondeva come un antidoto alla cupezza, alla seriosità dei compagni, del movimento. Una lettura radicalmente diversa da chi, fin da allora, sostiene che l’eroina si sia diffusa a sinistra grazie a un intervento mirato della Cia detto “Operazione Bluemoon”.

Che esista un legame fra commercio di eroina e, per esempio, la guerra del Vietnam, o fra servizi segreti e mafia, non è un mistero. Ma da qui a dire che senza l’intervento politico degli agenti segreti americani milioni di giovani europei non avrebbero mai iniziato a bucarsi ce ne passa.

Su Droga che farsi, pieghevole pubblicato a metà degli anni Novanta si leggeva: «Basta con la favola per minus habentes della droga della Cia e dei poteri occulti, spacciate ad hoc per vincere i conati di ribellione. I fratelli Grimm avevano più fantasia. Altro che subdole tentazioni dei perfidi strateghi capitalisti. “Son già sazia fatemi grazia non ho più voglia di un’altra foglia”. Davanti a un processo di massificazione della produzione e del consumo di sostanze psicotrope avvenuto in tutto l’occidente per fini, guarda un po’ in una società capitalista, di profitti e di guadagni – lo capirebbe anche un bambino – in Italia invece no. Si voleva, te pensa, distruggere e annientare una generazione di ribelli. La bufala è fin troppo evidente». Molto chiaro, molto condivisibile.

Vita e morte

Allora, come scrive Franco Berardi in una testimonianza riportata da Cristante: «Pazienza è l’interprete più perfetto del passaggio dell’eroina. In Pentothal c’è il passaggio dell’individuo isolato alla comunità reso con partecipazione erotica, il passaggio al corpo collettivo dei corpi desideranti. Il passaggio del movimento all’eroina, ma senza complottismo. Pazienza lo rappresenta bene come spostamento dell’energia desiderante». Il passaggio del movimento all’eroina, ma senza complottismo. Con Pompeo, Pazienza propone un essere umano che cerca un modo di convivere con l’eroina, facendo una vita normale, scoprendo, purtroppo assai presto, che normale è anche la morte.

Scrive Pier Vittorio Tondelli, riminese, nel 1986: «Agli inizi degli anni Settanta, la morte per overdose è stata effettivamente “il momento dell’estrema purificazione che spazza via ogni macchia e colpa passate. La morte per overdose innalza la vittima, la trascende, la santifica quasi”. In nome di questa nuova religione molti sono morti, e l’empireo dei tossici, di giorno in giorno, per anni, ha edificato i suoi cieli, innalzato i suoi arcangeli».

Oggi, continuava Tondelli, non è più così. E nessuno quanto i personaggi di Pazienza incarnano questo nuovo modo di essere eroinomani. Come ha scritto Cristante: «Pompeo è solo, disinteressato ai rapporti con gli altri, unicamente proiettato nell’inabissamento del mondo. L’eroina degli anni ‘60 e primi ‘70 non è culturalmente la stessa droga per cui si sbatte Pompeo nel suo ultimo giorno di vita».

Non c’è niente di orgiastico ed estremo nel farsi una pera e iniziare una partita a Risiko. Così, anche la descrizione del gesto di iniettarsi eroina è iperrealistico e completamente anti retorico: «Infilò entrambi gli aghi nella grossa vena del braccio destro, con i gesti alternati di chi svita i bulloni di una ruota, e tirò a sé gli stantuffi provocando l’apparizione di due rosse meduse nelle grosse siringhe. Immaginò di non riuscire a premere fino in fondo i due stantuffi e paventò l’idea d’un sistema di iniezione che ovviasse la sciagura di perdere conoscenza immediatamente dopo i primi due grammi. Pensò che aveva usato troppa acqua. Cercò la paura, ma non la trovò». Andrea Pazienza è morto per una overdose il 16 giugno 1988, quell’anno in Italia, come lui, sono morti, secondo i dati del ministero dell’Interno, 809 persone.

Pazienza disegna una nuova mappa culturale di città e provincia italiana di fronte, per la prima volta nella sua storia, al «flagello eroina». La sua è una mappa ancora in gran parte da esplorare dagli studiosi del decennio, una mappa che mette in primo piano soggetti mai raccontati e rappresentati, non solo i «drogati», ma anche i genitori dei «drogati», che diventeranno presto un topos, anche grazie all’uso strumentale che ne faranno tv ed editoria negli anni Ottanta, genitori sempre incapaci di capire quello che sta accadendo (da cui la guida ironica che Pazienza stesso disegna per far capire alle mamme se i loro figli «si drogano»). Ci sarebbe da ragionarci davvero su questa ridefinizione pubblica della parola genitori a partire dalla diffusione dell’eroina.

Come se, anche in questo caso, la reazione, il backlash, al protagonismo di chi aveva occupato scuole, case, chiesto una vita più dignitosa per sé e i propri figli negli anni Settanta, dovesse per forza portare a un esito prepolitico, come in fondo è stato quello dell’ideologia dei sommersi (dalla droga di stato) e dei salvati dalle comunità terapeutiche.

In questo senso emblematico l’episodio di Primavalle, quartiere romano dove, nel novembre 1981, un gruppo di madri si barrica con i figli nella palestra della scuola elementare rifiutando di uscirne fino a che le autorità non avessero trovato una soluzione allo spaccio feroce presente nel quartiere. Una richiesta politica, come era stata quella per i posti a scuola negli anni dei doppi turni. Una richiesta politica il cui esito più visibile e noto non lo è. Infatti, invece dello stato, chi arriva a Primavalle? Vincenzo Muccioli che porta a San Patrignano 25 ragazzi.

L’eroina, super merce, compie il miracolo, fornendo una scusa meravigliosa a chi non ne può più di vedere i capelloni per strada e i comunisti in parlamento. Fra Paz e SanPa c’è la fine del grande progetto democratico del welfare e ancora oggi ne paghiamo le conseguenze.

Da Vanessa Roghi Eroina, Strade blu Mondadori, 2022

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