Il 25 aprile scorso in tivù e alla radio la notizia del giorno non è parsa la ricorrenza della Liberazione nazionale ma la lettera al Corriere della Sera che Giorgia Meloni ha dedicato alla Liberazione nazionale. Tutti l’hanno commentata ma ne hanno eluso la sua conclusione.

Ed è un peccato, perché nelle righe finali la presidente del Consiglio ha speso sentite parole per la Resistenza a lei più vicina: quella dei “patrioti” osovani nel nord est del paese. Sono gli stessi che, nel dopoguerra, si convertiranno in milizie paramilitari nazionaliste e poi, dal 1956, in Gladio.

I bianchi se la intendono con i neri

A differenza dei tanti che la indorano, Meloni sembra sapere che questi partigiani, più che combattere nazisti e fascisti, erano semmai a loro vicini in funzione anti titina (gli jugoslavi, alleati di Stati Uniti e Gran Bretagna). O quanto meno lo era la fazione maggioritaria monarco-catto-nazionalista della Osoppo.

Insomma, mentre era in corso una sanguinosa guerra senza quartiere contro il nemico nazifascista, in Friuli i partigiani bianchi e i camerati neri, benedetti dagli inglesi, se la intendevano fra di loro. 

Tutto questo Meloni lo sa perché, a differenza dei sopra citati indoratori, lei deve aver letto l’ampio faldone del processo lucchese per i fatti di Porzûs (diciassette osovani ammazzati in Friuli da partigiani comunisti fra il 7 e il 18 febbraio 1945; tra loro Guido Alberto Pasolini, fratello di Pier Paolo) e quindi ben conosce la deposizione data in quella sede dalla camerata Maria Pasquinelli e dal capo della Decima Mas repubblichina Junio Valerio Borghese.

In sintesi, Pasquinelli ammise di aver tenuto contatti con l’Osoppo «attraverso l’ufficiale che il Borghese mi aveva indicato»; aggiunse poi che i capi osovani «si dichiararono pronti a trattare in merito personalmente con il Borghese». E il capo della Decima lo confermò: «Vi fu un incontro a Vittorio Veneto», disse Borghese a Lucca, «con un signore che allora si faceva chiamare colonnello Verdi e che recentemente ho saputo chiamarsi Grassi», appuntoil comandante osovano Candido Grassi, conosciuto come Verdi.

Partigiani anticomunisti

La premier Meloni conosce la storia d’Italia, e di certo ha letto Junio Valerio Borghese e la X flottiglia Mas (Mursia 2007) di Mario Bordogna, ex aiutante di campo di Borghese e suo biografo. Come si legge alle pagine 156 e 157, «il 1° gennaio 1945, d’accordo col comandante Borghese, il capitano Morelli ebbe un primo abboccamento col capo partigiano Verdi alla presenza del tenente Boccazzi».

Per chi non li conoscesse, Manlio Morelli era il comandante del battaglione “Valanga” della Decima Mas (si era anche parlato del passaggio di questo battaglione tra le fila osovane, nell’intento di formare un fronte comune anticomunista); il futuro scrittore Alfonso Cino Boccazzi era invece un ufficiale del servizio segreto badogliano “catturato” dalla Decima. 

Scrive poi Bordogna che il partigiano Verdi aveva avanzato «una sorprendente proposta: formare un gruppo il cui comandante sarebbe stato un elemento della Decima (che avrebbe dovuto fornire le armi) e il vicecomandante un elemento della “Osoppo”». Inutile precisare, scrive Bordogna, che «l’accordo da stipulare per la formazione di questo gruppo militare-partigiano sui generis, avrebbe ovviamente contemplato anche un patto di reciproca non aggressione». 

Osovani in camicia nera

Lette le carte da cima a fondo, ora Meloni conosce anche la triste storia degli osovani in camicia nera visti all’opera nel cosiddetto “presidio di Ravosa”, sempre in Friuli, costituito il 28 gennaio 1945 in un “patriottico” accordo tra la milizia fascista e il comandante della prima brigata Osoppo, Marino Silvestri Alfredo, con il beneplacito di Francesco De Gregori Bolla e del suo delegato politico Alfredo Berzanti Paolo, il futuro primo presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia.

Al processo di Lucca, Silvestri e Berzanti diranno che era per proteggere Ravosa dai saccheggi dei cosacchi, alleati e complici delle malefatte di nazisti e camicie nere.

Al solito, non viene meno la tolleranza germanica (come scrive lo storico liberale Jože Pirjevec, «è un fatto che gli osovani intrattennero rapporti “diplomatici” con la Wehrmacht e con i suoi collaboratori cosacchi»). 

Pare incredibile ma, guidati da ufficiali repubblichini e da loro addestrati e armati di tutto punto, questi osovani prenderanno parte a più di un rastrellamento anti garibaldino. Al processo di Lucca ne ha dato fra gli altri testimonianza Zeffirino Rossi Amos, un garibaldino arrestato nel marzo 1945 dai doppiogiochisti del presidio di Ravosa e rinchiuso nel collegio Marconi di Udine: da lì, il prigioniero vede «gli osovani uscire ed entrare con la macchina e la moto, e io mi domandavo come potevano fare ciò». 

E sempre a Lucca depone l’osovano Francesco del Negro: «Ci dissero di andare a Ravosa e qui giunti ci dissero di andare a vestirci a Udine con la divisa dei repubblichini. Con me erano diversi altri. Ci dettero la divisa grigio verde, una camicia nera e una camicia grigio verde. Sul berretto ricordo che c’era il fascio». 

Partigiani che rastrellano partigiani

Assetata di sapere, alla mai paga Giorgia Meloni non dev’essere di certo sfuggita la deposizione ai giudici lucchesi di Ermenegildo Qualizza, altro osovano: «Il presidio [di Ravosa] era comandato da ufficiali repubblichini. Il comandante è sempre stato un tenente e c’erano anche tre sottufficiali». Qualizza puntualizza che era «vestito come gli altri, in grigio verde, e avevamo due camicie una grigio verde e una nera».

Qualizza ammette di aver preso parte a rastrellamenti anti garibaldini: «Ricordo che a Udine un giorno, mentre facevamo istruzione, ci portarono a un rastrellamento e bisognò andare». 

Altrettanto surreale appare la deposizione di Remigio Rebez detto “la belva di Udine”, nuotatore paracadutista della Decima Mas di stanza al Centro di repressione presso la famigerata caserma “Piave” di Palmanova, un luogo in cui lo stesso Rebez tortura e ammazza i partigiani: come si legge, la maggior parte erano garibaldini, mentre i pochissimi dell’Osoppo «erano trattati benissimo e io stesso sono andato con loro al cinematografo». Rebez porta numerosi esempi, concludendo che «i patrioti dell’Osoppo arrestati sedevano alla mensa unitamente ai sottufficiali del Comando della Milizia».

Su un altro piano, Rebez ricorda il capitano delle SS Pakebusch, (comandante del suddetto Centro di repressione antipartigiana), gradito ospite a Villa Mangilli del facoltoso marchese Ferdinando Mangilli, esponente dell’Osoppo e membro dell’organizzazione Franchi di Edgardo Sogno (quest'ultimo coinvolto nel cosiddetto “golpe bianco” del 1974). 

All’armi siam golpisti

Il dopoguerra ha visto brillare altre figure apicali del firmamento osovano, come il generale gladiatore Luigi Olivieri (il partigiano Ginepro, già capo di stato maggiore della Osoppo sul finire delle ostilità, nonché membro del Comando unico insurrezionale di Udine e capo del Terzo corpo volontari, poi Organizzazione O), il colonnello Aldo Specogna alias Repe (ex comandante della Settima brigata Osoppo, poi capo del Movimento tricolore, reclutatore in Gladio e infine, subentrando a Olivieri, responsabile del Centro occulto di addestramento Ariete di Udine, costituito nel 1964 in sostituzione del Centro Orione, il primo centro di pronto intervento di Gladio) e, più lateralmente, il colonnello Prospero Del Din – il padre di Paola Del Din, la più amata da Meloni – prigioniero degli inglesi in India, comandante dell’organizzazione segreta Fratelli d’Italia (eh), aderente al Terzo corpo volontari per la libertà e responsabile di zona dei servizi segreti italiani.

Tutti passati per il Sim (il servizio segreto del Regio esercito), tutti poi aggregati al Sifar (il Servizio segreto militare della giovane Repubblica), tutti, chi più chi meno, coinvolti, nei primi anni Sessanta, nelle trame golpiste del “piano Solo” del generale “partigiano” Giovanni De Lorenzo.

Eccola qui la Resistenza che tanto piace a Giorgia Meloni.

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