La lettera di Giorgia Meloni, uscita ieri sul Corriere della sera, è un Frankenstein di rara bruttezza. Che prendesse la parola proprio in data 25 aprile, dopo infinite settimane di polemiche disseminate dalle dichiarazioni irricevibili dei molti Lollobrigida e La Russa, era più che prevedibile.

La sua lettera editoriale prova ad assemblare in una creatura mostruosa le pseudoidee di scarto della storia che la destra fascista poi saloina poi missina poi neofascista poi postfascista ha ripetuto dal 1945 a oggi, con una continuità che solo la malafede può nascondere.

La lettera è piena di omissioni, alterazioni e menzogne: quando scrive per esempio che il 25 aprile verrà commemorato dal governo, dimentica di rilevare che nessuno dei ministri ha pensato che fosse doveroso tenere limpida e separata la memoria dell’antifascismo da altre forme di ambiguità.

C’è chi, come Adolfo Urso, è andato a Porta San Paolo ma per sfilare con la brigata ebraica, chi come Ignazio La Russa è volato a Praga per mettere insieme in un osceno calderone il sacrificio di Jan Palach e la memoria dell’Olocausto, chi come Matteo Salvini ha omaggiato i caduti Usa al cimitero americano di Firenze.

L’abiura della nostalgia

La retorica del discorso poi diventa tanto furbesca da essere nauseante. «I partiti che rappresentano la destra in parlamento hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo», scrive, chiaramente mentendo. Non si tratta solo però di una menzogna opaca, ma di una distorsione voluta.

Se si fa un’operazione sbalestrata di revisionismo sul fascismo, che senso ha parlare di nostalgia? Se si dice che il 25 aprile non è una liberazione, ma uno spartiacque rispetto a un periodo raccontato come astrattamente sanguinoso, questo significa solo una cosa: rimozione, elusione, deresponsabilizzazione, viltà. Per esempio: non si cita mai chiaramente lo squadrismo, e le persecuzioni razziali sono infilate in un unico calderone insieme ai bombardamenti.

La dichiarazione di abiura della nostalgia è un percorso realmente avvenuto nel contesto neofascista, ma non tra democratici e antidemocratici, ma tra due forme di strategia diversa – una entrista e una ribellista jungeriana – che nella comunità missina si sono sempre scontrate: Michelini contro Almirante, Msi contro Fuan o contro Terza Posizione, Fini contro Rauti.

La nostalgia dalle parti dei neofascisti a un certo punto si è capito non pagava più e quindi si è andati in cerca di altri immaginari da saccheggiare: da Bobby Sands a Jan Palach, dal fantasy ai manga; alternando gli unici stili conosciuti: la grossonalità e la strumentalizzazione.

Quello che non è stato mai messo in discussione sono state la responsabilità storiche e metastoriche del fascismo e del neofascismo – dagli stermini coloniali alla infinita violenza squadrista, dalla repressione degli omosessuali e delle minoranze etniche, dalla cultura virilista alle connivenze organiche con lo stragismo degli anni Settanta.

La “matrice” Berlusconi

Ma oggi Meloni al governo, la gabbiana underdog che ora distribuisce le nomine delle aziende di stato, vuole autoincoronarsi madre della patria – o meglio sorella di quel fratriarcato che è il suo partito. Prima di lei ci aveva provato Berlusconi: dopo aver disertato le celebrazioni dal 1994 in poi, cambiò idea nel 2009 a Onna e fece un discorso che è la matrice di questa lettera.

Lì c’era da battezzare il Popolo delle libertà e quindi liberazione doveva essere piegata per diventare una astratta libertà. Il copione si ripete, ma nemmeno in versione farsesca.

Non è facilissimo contrastare questa adulterazione. Lo fa molto bene però Ida Dominijanni nel suo libro del 2014 Il trucco, in cui ricostruisce quel tentativo egemonico di Berlusconi ma anche il suo fallimento: di lì a poco sarebbe scoppiato il sexgate.

Più precisamente Dominijanni fa partire proprio da lì la sua analisi sul berlusconismo, versione italiana del neoliberismo antidemocratico, che proprio dal suo sessismo esplicito e dopato prendeva molta della sua forza simbolica.

Il fascismo oggi

L’antidoto a questa lunga intossicazione che parte da Onna e arriva a oggi la possiamo trovare anche noi nelle parole di Hannah Arendt e Michel Foucault, come suggerisce Dominijanni. L’antifascismo, la Resistenza, la Liberazione sono concetti dinamici, non dati una volta per tutti, proprio perché «la libertà è sempre minacciata da rapporti di potere, che non smettono di riprodursi e di rinnovarsi, vive di pratiche politiche o muore».

Per questo non basta appellarsi alla Costituzione, quello può farlo anche un neofascista mascherato, ma occorre vedere come il fascismo si riproduce nelle forme di dominio di oggi (il colonialismo paternalista di Meloni in Africa, la detassazione delle coppie con i figli che è la riproposizione della tassa sul celibato del 1927).

Gli ultimi paragrafi della lettera sono però più raccapriccianti degli altri: quanta infamità quando ascrive a una destra matura la tenuta democratica del paese, come se le varie formazioni neofasciste, dall’Msi in giù, non si fossero sempre tenute apertamente ambigue nei confronti dei vari golpismi, oltre che reticenti e complici rispetto allo stragismo.

Su una cosa sola Meloni ha ragione, e gliela lasciamo: questa progressiva infezione del dibattito storico e della cultura democratica del paese non sarebbe avvenuto solo con l’insistenza militante di almeno tre generazioni della Fiamma – come si autodefiniscono – ma è stata possibile con il contributo determinante di mistificatori politici come Luciano Violante ed Ernesto Galli della Loggia. A loro più che ai volgari revisionisti affamati di credibilità istituzionale dobbiamo questo disastro culturale, che sarà molto più duraturo che questa grottesca fase politica.

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