La chef Antonia Klugmann: «Come siamo messi oggi con la sostenibilità? Male»

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è cucina insostenibile. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. Se l'obiettivo non è la meta, ma il viaggio, quello della chef Antonia Klugmann verso la sostenibilità sembra essere intricato, ma imprescindibile. Con il suo Argine a Vencò – una stella Michelin sul Collio (Gorizia), tra i boschi al confine tra Italia e Slovenia – si lascia guidare dalla natura che la circonda, proponendo un menù in cui non solo il vegetale è spesso protagonista, ma che non presenta alcun piatto signature, cambiando completamente in base alle stagioni. Pochi giorni dopo la nostra conversazione su questo tema, il ristorante è rimasto vittima delle forti piogge che hanno colpito proprio la zona di Gorizia. Il fiume Judrio è esondato, allagando tutta la proprietà e costringendo Vittoria e Antonia Klugmann a evacuare personale e clienti. L'ennesima catastrofe che rispecchia la fragilità della natura. Chef e critici tengono il MeToo lontano dalle loro cucine Sostenibilità «onnivora» Quando si domanda alla chef a che punto ritiene di essere in termini di sostenibilità, lei risponde – con una punta di amara ironia – «male, malissimo». Poi, fornisce una spiegazione dettagliata della forbice che separa realtà e ambizione: «Siamo un ristorante per onnivori, io lo sono. Lavoriamo carne, pesce e verdure. Cerchiamo di non avere mai pesci catturati con lo strascico, sempre locali, del nord dell'Adriatico, e di non servire niente di raro». Per la carne, il discorso è simile. «Lavoro da quasi quattro anni con un piccolo macellaio di Cormons, a circa un quarto d'ora dal ristorante. Lui seleziona solo allevamenti locali, dove gli animali sono cresciuti e nutriti in un certo modo». Quando si parla di vegetale, invece, il registro cambia leggermente. «Ho quattro fornitori diversi. Il mio fruttivendolo mi consegna anche prodotti non regionali, ma sempre di stagione». Il criterio, in questo caso, è il tentativo di sfruttare al massimo la biodiversità che il territorio italiano offre. «Siamo avvantaggiati, non solo abbiamo una biodiversità trasversale, ma altitudini e latitudini che ci consentono di avere ingredienti di ottima qualità tutto l'anno». Cibo insostenibile, l’evento a Milano sulle contraddizioni dietro ciò che mangiamo Il giardino selvatico La cartina tornasole della centralità che la natura ha all'interno della cucina della «sua Vencò» – come la chiama affettuosamente – è senza dubbio l'orto giardino selvatico che sorge a pochi metri dal casale di campagna. Una fucina di erbe, ispirazione per gran parte dei piatti dello chef. Il giardino di Vencò è solo l'ultimo degli orti in cui ha avuto modo di studiare. «È il mio maestro principale, un terreno che ho scelto in un punto preciso del Collio, circondato da boschi e acqua. Un ettaro di cui siamo proprietarie io e mia sorella (Vittoria Klugmann, ndr ) un terzo del quale viene lasciato incolto». Il concetto di “selvatico” si basa su una filosofia ben precisa. «Di norma, gli esemplari che nascono spontaneamente nei giardini sono quelli più adatti al tipo di clima, al terreno – spiega – più tu li lasci liberi di espandersi e rispettivi i loro meccanismi di crescita, più ne avrai per gli anni a venire. Noi lasciamo che i semi del coltivato si espandano nel selvatico e le piante selvatiche che ci interessano entrino nelle vasche coltivate, in cui avranno delle risorse maggiori». Una sorta di anteprima degli orti del futuro. «Tra qualche anno, a causa della mancanza di risorse del nostro pianeta, non esisteranno più giardini ordinati e precisi, con piante esotiche o rare. Il futuro è avere piante adatte al territorio e lasciare che varietà spontanee ci dimostrino come si sta evolvendo il clima». La cucina non finisce mai, è luogo di rapporti umani Il bello e il buono La sostenibilità, per Klugmann, non è soltanto un discorso di tutela dell'ambiente, ma anche di qualità. Un circolo virtuoso in cui il buono si lega al bello, legato a sua volta all'etico. «Fino a 60 anni fa era considerata bella una pelliccia di animali in via d'estinzione, ma oggi sarebbe inconcepibile. Allo stesso modo, spero che il concetto di bello possa modificarsi anche in cucina, valorizzando sempre più ingredienti di per sé poveri, come il pane, oi carciofi, ma che grazie alla tecnica vengono lavorati per risultare buoni». Sarebbe grazie allo studio di chi sta in cucina che, senza essere educato ma piuttosto guidato, il cliente acquisirebbe la consapevolezza di quanto possa essere buona una materia prima coltivata, pescata o allevata nel modo più etico possibile. Un discorso che ha a che fare con l'evoluzione del concetto di lusso a cui si assiste nell'alta ristorazione. Cibi come caviale, o foie gras stanno lasciando spazio a lavorazioni sempre più all'avanguardia e ingredienti fortemente identificati. Un esempio – nel caso dell'Argine a Vencò – sono le erbe spontanee, che spesso «non si trovano in commercio», e che il cliente può gustare solo in quel casale all'argine del bosco. La compenetrazione L'evoluzione del fine dining verso una sempre maggiore sostenibilità è un percorso nel solco della compenetrazione tra gastronomia popolare e alta cucina. «C'è sempre stata un'influenza reciproca tra le due – spiega Klugmann – ancora oggi è così. Il nostro paese è caratterizzato da un continuo scambio culturale e di risorse umane tra i due universi». Da un lato, la cultura gastronomica popolare fa largo uso di ingredienti poveri, valorizzandoli secondo il gusto comune. Dall'altro, l'alta cucina, grazie a tecnica e risorse, rielabora in chiave contemporanea le stesse materie prime, lasciandosi spesso ispirare dal criterio della sostenibilità. «Chi dice che il fine dining è morto, che il futuro sono solo le trattorie, non si rende conto che il nostro paese è caratterizzato da questo binomio inscindibile», precisa la chef. Con una cucina ispirata all'equilibrio fragile della natura che la circonda e che evolve di continuo, è difficile individuare nei menu di Klugmann piatti che siano punti fermi del suo manifesto gastronomico. Eppure, uno fra tutti, rappresenta al meglio l'idea di sostenibilità intesa come armonia tra natura e lavoro dell'uomo: «I miei ravioli verdi ripieni di erbe autunnali. È un insieme di erbe selvatiche del mio orto, come la cicoria, o l'acetosa. Il ripieno si può utilizzare solo il giorno in cui lo si raccoglie. Non c'è niente di prezioso all'interno, ma il mix è fenomenale». [Missing Caption][Missing Credit]