Piove. E il resto della battuta l’ha suggerito l’altro giorno il presidente della Federazione italiana tennis, l’ingegner Angelo Binaghi. Che conosce numeri, sa di impianti sportivi e può discettare di fluidodinamica, sventolando studi che mostrano come lo spettatore del tennis, seduto e zitto come si conviene al gioco più cavalleresco del pianeta e sistemato in una struttura come quella del Pala Alpitour – pure sovradimensionata rispetto ai 12.000 spettatori stabiliti come capienza massima – ha la stessa probabilità di contagiarsi che un elefante di restare in bilico su un burrone con la coda appesa a una margheritina.

Solo che il Cts, il comitato con potere di vita e morte sulla socialità in epoca Covid, definito da Binaghi «ignorante e arrogante», l’ha pensata diversamente e la capienza massima delle Atp finals è rimasta ferma al 60 per cento, a dispetto di una deroga promessa verbalmente e tale rimasta, nonostante i buoni uffici del sottosegretario Valentina Vezzali.

Sicché qualcuno – pochi ma comunque giustamente inferociti – cui era stato venduto uno dei circa 120.000 biglietti tecnicamente in overbooking è stato respinto all’uscio, senza riguardo per il fatto che il nomade tennistico non somigli a quello di altri sport: spesso arriva da lontano (in questo caso, risultano prevendite da 60 paesi, il 20 per cento circa del totale del venduto), ha programmato la trasferta mesi prima e prevedeva di fermarsi più di un giorno.

È gente che spende: una ricerca di Kpmg ha calcolato un esborso giornaliero medio di 200 euro a persona. E il business è pesante, con una ricaduta sul Pil nazionale, nei cinque anni di permanenza dell’evento in città, di 600 milioni.

Il torneo

Novak Djokovic (Serbia) esulta per la vittoria del match (Photo Marco Alpozzi/LaPresse)

A Torino, il numero uno del mondo Novak Djokovic e compagnia giocano a dispetto degli inciampi e che il torneo dei maestri sia approdato qui, a fianco dello stadio del Grande Torino, dopo aver toccato Houston, Shanghai e Londra, è inutile girarci intorno: è stata una gran cosa. Da che l’evento esiste, vale a dire Tokyo 1970 con il trionfo di Stan Smith (quello che ha dato il nome alle scarpe, e non viceversa come mezzo mondo suppone), non si era mai pensato che gli otto migliori tennisti dell’anno potessero essere radunati davanti a un piazzale sul nostro suolo.

E che in tram, nella linea automatica della metro sabauda e nelle piazze del centro, nei bar dove si beve il bicerin di Cavour e alla macchinetta del caffè in ufficio si potesse tornare a discorrere di tennis come ai tempi che furono, quelli di Adriano Panatta e Corrado Barazzutti, non pare quasi vero.

L’appassionato italiano non è più costretto a imparare pronunce esotiche e a fare il tifo per campioni stranieri. Ormai non passa giorno senza che quella variegata e trasversale moltitudine di umanità un tempo impegnata a dire la propria sul dio pallone si esprima sul dritto di Matteo Berrettini, la seconda di servizio di Jannik Sinner o il dilemma dei dilemmi: ma tra Roger Federer e Rafa Nadal, entrambi assenti causa anagrafe e acciacchi, chi è il più forte? Sempre che la risposta non sia Djokovic.

Pure mamma Rai è tornata a far vedere un campo sportivo in prima serata, senza erba e pallone e con una rete in mezzo. Come quando commentava il povero Giampiero Galeazzi. Il primo giorno, forse a causa della ruggine negli ingranaggi, la tivù di stato ha mandato in onda uno spot ficcandoci dentro lo Zverev sbagliato, il fratello, che è un po’ come pubblicizzare un docufilm su Ralf Schumacher e non Michael. Capita.

Maestri italiani

Matteo Berrettini (Copyright 2021 The Associated Press)

Al di là dell’acqua e dei tendoni zuppi in piazza San Carlo, un po’ sfilacciati dal resto della manifestazione, della querelle sui ticket e di qualche defaillance nella gestione di ingressi e rifocillamenti per il pubblico pagante, a rovinare la festa ci si stava mettendo la tragica tempistica dell’infortunio di Matteo Berrettini, vittima nel 2021 per tre volte di Novak Djokovic (nei quarti al Roland Garros, in finale a Wimbledon e ancora nei quarti agli Us Open) e per due, in Australia e qui, dei muscoli addominali.

Le sue lacrime, quelle del primo campione italiano qualificato al Master (già nel 2019) dopo più di quarant’anni hanno corroso una parte del sentimento di esaltazione corale ma, a testimonianza dello stato di grazia del tennis italiano, a prendere il suo posto è stato Jannik Sinner, l’altro gioiello di casa, oggi ancora in corsa per le semifinali ma solo a patto di vincere il suo match contro Daniil Medvedev e nella speranza di una parallela sconfitta di Zverev. Due italiani tra i maestri: per uno sport che si era abituato a guardare il grande tennis in tivù, giocatori inclusi, è un racconto che ha del surreale.

Sognando Cortina

Per la città di Torino, che ha pagato la scelta grillina del no ai Giochi di Cortina nei tempi del niet generalizzato a qualunque cosa non rimasse con decrescita degli onesti ode al depauperamento, è invece un piccolo riscatto. Con il quale l’ex sindaca (ed ex tennista appassionata, nonché vicepresidente della Federtennis per scelta di Binaghi) Chiara Appendino è riuscita a lasciare un ricordo un po’ differente dalla collega romana Virginia Raggi.

Ha anche rettificato verso di sé l’intestazione del merito della scelta di Torino come sede del torneo dopo che il presidente del Coni, Giovanni Malagò, aveva sostenuto che la candidatura del capoluogo piemontese a città del tennis fosse stata una sua idea. Sulle ali dell’entusiasmo, la città e il suo nuovo sindaco Stefano Lo Russo, pronto nel respingere addebiti sui disservizi delle Atp finals perché figli della gestione precedente, sta esplorando le possibilità di proseguire il piano di rinascita e attaccare un vagone in coda al treno dei Giochi invernali di Milano e Cortina del 2026. Ma Malagò ha fatto sapere che no, il pentimento è tardivo e ben difficilmente potrà essere accettata questa candidatura giunta fuori tempo massimo.

Se qualcuno non ci ha capito granché, è normale. In uno degli infiniti scambi tra i probabili finalisti Djokovic e Medvedev, ci sono due campioni e una palla. Qui la palla resta una, le racchette due ma a sgomitare per reggerle in mano tra stato, regione, città, enti, camere di commercio, politici in carica e non e interessi privati si è creata una coda. Come quella in piazza, davanti all’ingresso, per vedere dal vivo i maestri.

 

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