La lotta di un ragazzo di 16 anni corrisponde a quella di molti migranti di seconda generazione in Italia. Ragazzi in bilico tra quel che si deve preservare delle proprie origini e quel che altrettanto si deve raccogliere dall’ambiente in cui si vive. Così Aziz anticipa i figli della modernità
Aziz in classe viene chiamato «il maranzino». Un po' per il suo carattere irrequieto, un po' per le sue gesta alla Pascal Brutal. All’intervallo e a lezione Aziz chiama tutti «bro», «freri», «kho». Porta sempre un borsellino sacoche GUCCI la tuta del Milan, i calzini di marca SPORTIF in materiale sintetico e le Squalo TN in eccezionale stato di conservazione.
Quando lo nominano Aziz si agita come un celenterato, le spalle morbide si contraggono, preoccupato da tutto e, fuori dal tutto, accigliato. Il naso cesellato dai pugni e baci, i capelli neri spumosi fuori dalle mode nel tentativo sbagliato di essere dentro la moda e quindi nel tempo, gli occhi nocciola di una disperata vitalità, la t-shirt che scimmiotta qualche frase di Tupac Shakur.
Aziz arriva da Rabat ha 16 anni e quando parla di sé, usa la terza persona. È alto un metro e ottanta e pesa 100 chili. Difficile non vederlo in classe.
Aziz è un adolescente di seconda generazione, venuto da un altrove che non conosciamo.
Aziz mi chiama “socio” da prima che iniziassi a insegnare. Mi piace la parola «socio»: fa molto anni 90. È una parola equilibrata perché mette in una posizione orizzontale ed equivalente. È una parola bella perché richiama l’idea di fiducia e d’impudenza. È la parola giusta perché a metà strada tra “fratello” (quando la confidenza è troppa) e “Prof.” (quando la confidenza è scarsa).
Il consiglio di classe è sempre lo stesso: «Aziz ha deciso di non studiare più». «Aziz esce dal laboratorio senza permesso». «Aziz insulta i compagni in arabo».
Apro l’agenda. Ore 10.00. Colloquio con i genitori di Aziz. Dovrò comunicare la sua sospensione dopo decisione del consiglio di classe. Poi penso che Aziz è sospeso da tempo. Troppo tempo. La sua presenza a scuola è solo un ‘immagine. Aziz è in classe, ma non c’è. E noi docenti, abbiamo smesso di cercarlo.
Aziz è fuori luogo, privo di uno spazio appropriato nella sfera sociale e di un posto assegnato nelle classificazioni: «un maranza», «un marocchino di seconda generazione», «un non integrato», «un deviante». Un adolescente di qui venuto da un altrove che non conosciamo.
All’appuntamento si presenta il padre, Mohammed. Aziz è insieme a lui con lo sguardo torvo e in tralice. Mi ispira fiducia Mohammed. Il suo sguardo è indulgente. Umile. Mohammed ha gli stessi occhi del figlio. Occhi femminili e color nocciola. Inizia un breve colloquio. Non lo so ancora, ma questo sarà uno degli incontri più belli della mia vita.
«Non sai quanti sacrifici facciamo tua mamma e io per te?».
Silenzio.
«Ed ecco come ci ripaghi. Tua madre non ce la fa più. Piange sempre».
«Guarda tuo padre. Ho lasciato ciò che mi piaceva per venire in Italia. L’ho fatto per te e i tuoi fratelli. Hai avuto sempre tutto, cosa ti manca?».
Silenzio.
Sono paralizzato. Vorrei intervenire, ma non posso. Poi ho un impulso. Una domanda inutile. Banale.
«Mi scusi signor Mohammed ma che lavoro faceva in Marocco?».
«Facevo l’insegnante di letteratura araba». Scopro che Mohammed ha una laurea in letteratura. Insegnava a Khouribga. Forse, per questo motivo Aziz è bravo a scrivere.
Silenzio.
«Ahmed vorrei fare leggere a tuo padre la poesia che hai scritto. Posso?».
Lui accenna un sì con la testa.
Con un gesto rapido e violento estraggo dal raccoglitore un foglio protocollo. Leggo.
Son io che ti invento,
ti osservo e mi sento
la tempesta nel petto, sulle labbra un tormento.
Il tramonto mi ha spento,
come l’ultima stella che saluta il cemento.
Nella notte, lo sai, con tutti i miei fra
nessun pensiero questa gente mi dà
Ou est ton papa? Dis-moi, ou est son papà
Sans meme devoir lui parler, il sait ce qui ne va pas
quell’occasione che vorrei e che non trovo mai.
Questa è la solitudine,
una caduta abitudine,
un corpo trascinato via
dalle parole e l’inquietudine.
«Suo figlio è molto bravo a scrivere. Ha un ottimo uso delle rime. Usa le metafore e le allitterazioni».
Aziz potrebbe fare il rapper o il poeta.
«Ma lui deve prendere diploma per lavorare. Quando avrà un lavoro potrà fare insegnante, come ho fatto io».
Quel «come ho fatto io» suona come una condanna. Aziz alza gli occhi lentamente, come per sfidarlo. Una luce attraversa il suo sguardo. Si accende tutto il volto. In quello sguardo mi commuovo.
Aziz e suo padre non si capiscono. Mohammed è la dimostrazione di quello che bisogna fare, di cosa è un buon padre musulmano con una vita alle spalle tra campi e murature. Quindi Aziz non deve fare domande. Aziz non ha possibilità di decidere. La lotta di Aziz è quella di molti migranti di seconda generazione in Italia. Ragazzi in bilico tra quel che si deve preservare delle proprie origini e quel che altrettanto si deve raccogliere dall’ambiente in cui si vive. Ma quello che ho di fronte è un problema più vasto del semplice farsi capire. Riguarda il rapporto tra ciò che si fa e ciò che capita, tra ciò che ci rende singoli, tra desiderio e dovere, tra quel che si ritiene giusto e quel che si percepisce come proibito, tra l’essere adolescenti e l’essere adulti.
Ma Aziz ci dice qualcosa di più. Anticipa i figli della modernità, il futuro meticcio. La forza creativa dell’essere duplici. Dell’appartenere a due mondi ma senza topos. Senza un posto nel mondo.
Aziz è uno dei tanti ragazzi che oggi molti rappresentano nella categoria «maranza», un neologismo che si fonde «marocchino» e «zanza» (zarro o tamarro di periferia).
Ed è questo lo spettro che si aggira ancora una volta tra i razzisti: il maranza. Il maranza è la nuova icona del sociale. Una figura che ritorna nelle parole, nelle frasi, nelle dichiarazioni, nei meme, nei media, nelle leggi, nelle etichette che diventano stigma sociale, culturale, politico. Questo significante è ormai entrato anche nel linguaggio tra studenti a scuola e tra i giovanissimi che incontriamo a Novara: «Il maranza è un ladro, quelli che rubano in centro», «è uno spacciatore», «il maranza porta il passamontagna come il trapper», «sono gli immigrati, i mao mao che sbarcano», «sono quelli del che cazzo guardi». Anche a scuola nella distinzione di sé dagli altri emerge questa lettura comune, seppur meno strutturata che nel discorso pubblico.
È un nuovo genocidio linguistico. In questi mesi il termine maranza è stato ripetuto così tanto che la Lega ci ha scritto una legge. Il testo presentato alla Camera da Jacopo Morrone e la vicesegretaria del partito Silvia Sardone, si propone di modificare la legge n.91 del 1992 sulla cittadinanza e il decreto legislativo n.286 del 1998, conosciuto come Testo unico per l’immigrazione. Una proposta che viene chiamata “anti-maranza”. Si presenta questa proposta come una “misura deterrente”, come se il maranza fosse la chiave per parlare di cittadinanza, migrazione e ricongiungimenti familiari.
L’obiettivo dichiarato è sempre lo stesso: chi diventa cittadino italiano deve meritarlo, la cittadinanza non si può regalare, essere cittadino italiano è un privilegio da guadagnare.
Il termine maranza non nasce oggi. Già negli anni Ottanta e Novanta a Milano si indicava con maranza il tamarro di periferia, il paninaro con i vestiti appariscenti che ascoltava la musica alta e violava le buone maniere borghesi. Era una questione di stile, di tipizzazione.
Oggi però il significato si è spostato: nell’immaginario mediatico il maranza è il giovane di seconda generazione, spesso di origine nordafricana, che vive nelle periferie e occupa lo spazio urbano in modo visibile, rumoroso, conflittuale. È un copione che conosciamo: come il vu’ cumprà sulle spiagge italiane, la figura del venditore ambulante africano trasformato in simbolo di abusivismo e fastidio. È lo stesso meccanismo che ritorna nella parola kanake in Germania, nella parola racaille in Francia, nei jeunes de banlieue: parole che creano categorie di devianza unica, senza pluralità, senza storia, senza vita.
È ciò di cui parlano sociologi come Goffman, Becker, Sheff e le labeling theory. La devianza non è ciò che si fa, ma ciò che viene etichettato come devianza. Una volta stabilita una categoria – che sia maranza, kanak, beur, vu’ cumprà, clandestino, immigrato, tossico o capellone – ogni comportamento dei giovani associati a quella categoria diventa automaticamente criminale nella percezione pubblica, anche quando i dati reali dicono che i reati minorili sono in calo.
Si tratta di ricreare un capro espiatorio. Come ricorda il filosofo René Girard, il capro espiatorio è il pilastro di una civiltà dove la violenza è sistemica. Dal vello d’oro agli ebrei nei campi di sterminio, il capro espiatorio è sempre servito a rimettere in equilibrio simbolico le tensioni di una società.
Il maranza diventa così un capro espiatorio moderno: nemico pubblico perfetto, perché attraverso video, pose, meme, sembra offrirsi da sé.
Non solo. Accanto al capro espiatorio agiscono quelli che chiamo «discorsi che uccidono». Sono discorsi insidiosi, freddi, razionali, che non gridano, non incitano apertamente all’omicidio, eppure operano come discorsi di esclusione e disumanizzazione: «I maranza ci guardano come criminali, non conoscono la legge, la lingua italiana» e «la cittadinanza è una cosa seria». Pensiamo alle dichiarazioni uscite dopo la morte di Ramy Elgaml, il 19enne egiziano che era in sella allo scooter guidato dal 22enne Fares Bouzidi durante l’inseguimento dei carabinieri a Corvetto.
«Chi sono i “maranza” di Corvetto, il quartiere dove è morto Ramy?», tuonava il TgLa7 come fosse un documentario di Super Quark; oppure le dichiarazioni del deputato Riccardo De Corato (FdI) che in più interventi pubblici su Fares Bouzidi alla guida dello scooter lo definì: «Il ‘maranza’ che guidava il TMAX con la droga addosso» o ancora le dichiarazione contro il sindaco Sala «Leggo gli ultimi dati comunicati dalla Polizia di Stato che vedono, a Milano, 800 arresti di “maranza” di cui, 7 arrestati su 10, sono nordafricani. Sono loro, infatti, i protagonisti assoluti in negativo dei furti, dello spaccio, delle violenze sessuali e degli accoltellamenti gratuiti che si verificano spesso nella nostra città».
È lo stesso meccanismo che si usa con l’immigrato. Non si dice: occorre chiudere le frontiere e lasciar annegare i migranti in mare. Si dice piuttosto: «Non si può accogliere tutti, non è forse così?». Non si dice di «arrestare per dei reati commessi» si dice «la cittadinanza è una cosa seria», si dice: «Noi vogliamo che chi diventa cittadino se lo meriti» (con quasi un milione di minori stranieri senza cittadinanza poi), si dice al maranza che «essere cittadino italiano è un privilegio che bisogna guadagnarsi, anche attraverso un’adeguata e provata conoscenza della lingua italiana».
L’azione criminale della non-assistenza come quella sulla cittadinanza è camuffata dietro un’etica legalista e securitaria: «Non faccio che applicare la legge».
C’è il maranza e c’è il cittadino, c’è il noi e c’è il loro, c’è il dentro e il fuori, gli amici e i nemici, gli stranieri e chi si conosce. Il linguaggio politico diventa una pedagogia dell’odio. Le parole hanno conseguenze, non frenano ma provocano violenza mentre la mascherano. Si gestiscono flussi migratori, si scrivono leggi anti-maranza, si parla in nome di una Necessità, quella della sicurezza e tutto questo solidifica un senso comune che fa del maranza una minaccia.
Ma cosa c’è di così diverso questa volta? Il fatto cruciale è che oggi i protagonisti sono stranieri o figli di stranieri. L’essere straniero apre una frattura più forte, una cultura altra che entra in conflitto con la nostra. Il maranza prende il sistema valoriale dominante e lo rivolta, lo ridefinisce, gli dà un altro significato.
Noi preferiamo vedere solo la sua violenza per non vedere la nostra: la violenza amministrativa, economica, quella che attraversa il lavoro, la casa, i confini.
Maranza non riguarda solo una parola, ma un vocabolario intero che schiaccia la complessità delle vite. E allora scuole, educazione, politiche giovanili, ma anche i penitenziari dovrebbero cooperare per smontare questa etichetta e capire le dinamiche sociali in cui si è immersi, trovando strumenti per contrastare la violenza senza fantasmi sociali. Produrre un discorso che resista ai discorsi che uccidono significa mettere al centro le persone concrete, riconoscere la loro pluralità, accettare che la lingua non è mai innocente. È questa la sfida della scuola. Una sfida difficile, che richiede attenzione e apprendimento continuo.
Perché ogni volta che pronunciamo la parola maranza stiamo scegliendo da che parte stare.
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