Nel 1975 a San Francisco, dal 21 marzo al 22 giugno una gigante e fiammeggiante mostra di arte contemporanea e di performance esplose in città, come se la Bay Area avesse avuto bisogno di ulteriori accensioni. “The Rainbow Show” coinvolgeva vari luoghi della città, ovunque, persino la redazione di Rolling Stone. Fu una bomba.

Lavori straordinari, tra cui il pazzesco ambiente di sacelli dai mille colori chiamato “Spectral Passage” della straordinaria Alexandra Kasuba. Ad accompagnare la mostra non fu il solito catalogo ma un libro a parte, The Rainbow Book, che raccontava la relazione degli umani con i colori, con quelli che compongono l’arcobaleno in particolare, e che separatamente compongono le sezioni del libro ciascuna di un preciso pantone.

Il libro è un capolavoro andato poi perduto, un delirio fricchettone sofisticatissimo (perché di questo ovviamente stiamo parlando) dedicato alle teorie cromatiche della vista, alle costellazioni astrali, all’uso di psicotropi per produrre visioni dalle sfumature più disparate, ad antichi riti e miti al cui centro in qualche modo stanno pigmentazioni di ogni tipo.

E all’iconografia che da tutto questo nei secoli e in parecchie culture del mondo esiste da sempre. A un certo punto, non sorprendentemente, l’attivista superstar afro-americana Angela Davis fa visita alla mostra e qui parte il secondo treno semantico, diciamo.

Il movimento per la rivendicazione dei diritti della comunità black inizia a usare anche la metafora dell’arcobaleno per rappresentare la propria lotta. Nasce il Rainbow Bar, sempre a Frisco, come luogo di aggregazione. Nascono i Rainbow Gathering come forme di aggregazione all’aperto, che giungono fino a noi. Dentro lo stesso vortice nasce la Black Art Movement School, curata da Romi Crawford, tuttora viva e scalciante più che mai.

Per proprietà transitiva, l’arcobaleno viene parallelamente adottato dalla comunità gay&lesbian come veicolo visivo per la lotta per i diritti della comunità, che a San Francisco ha il proprio centro incontestato nel mondo. Se le nostre strade saranno riempite dei colori dell’arcobaleno questo week-end, beh, è dovuto a questa serie di congiunture.

Curiosamente tutto coincide, ma non a caso, con le attività attualmente in corso al museo delle culture di Milano, dove la direttrice Marina Pugliese dopo cinque anni di stanza a San Francisco (eh), ha deciso di partire da questo nucleo per attivare l’istituzione, orientandola verso un vero e proprio luogo di reale conversazione tra culture (appunto), storia e mondo.

La partenza è stata data a metà febbraio da una mostra-bijou Rainbow. Colori e meraviglie tra miti, arte e scienza (fino al 2 luglio) che proprio dello show di San Francisco porta il dna, per farne un punto di partenza e allargare il campo, sia includendo le collezioni etnografiche del museo sia opere di potenti artisti/e della scena contemporanea in primis.

Tra questi un geniale lavoro di Cory Arcangel che invade l’ingresso alle mostre del museo con una moquette dai colori che potete immaginare. Mica è finita qui. Pugliese prende la decisione di non fare cataloghi per le mostre temporanee e, discutendo, insieme immaginiamo invece una rivista in lingua inglese a diffusione internazionale, che comunichi il museo a tutte le istituzioni “gemelle” e bookshop sofisticati nel mondo. Così ne divento il direttore editoriale.

Nasce “MU-Mudec United. Un tributo alle visioni, ai mondi esterni e alle amicizie (in inglese suona meglio)” ed è uscita lunedì, insieme alla ripubblicazione separata dello straordinario Rainbow Book riprodotto in modo impeccabile dal punto di vista cartografico (entrambi per Nero Edizioni).

Contiene alcuni contributi che potete forse immaginare: la testimonianza di uno dei curatori sopravvissuti dello show di San Francisco e del Rainbow Book, Lanier Graham; un’analisi del lavoro della Kasuba che non a caso sarà per la prima volta rifatto dopo 50 anni, durante la grande mostra di installazioni di artiste donne, dagli anni 50 ai 70, “Inside Other Spaces”, che Pugliese e Lissoni all’Haus der Kunst di Monaco (apre l’8 settembre, altro ganglo di questa conversazione).

E lunghe digressioni a cui tengo molto della giovanissima antropologa Agnese Maccari, di Elisa Giuliano&Zairong Xiang e del meraviglioso filosofo italiano trapiantato a Londra, Federico Campagna sul ruolo che può ancora avere in Occidente dopo cinquant’anni il simbolo della bandiera arcobaleno per la rivendicazione di diritti civili Lgbtq.

Specialmente in epoca di cosiddetto “rainbow washing” da parte delle aziende, che a volte praticano realmente l’inclusione seppur da poco, altre si sciacquano la coscienza e basta (vedi da cinque e più anni la fermata-arcobaleno del metro di Porta Venezia a Milano, interamente rifasciata arcobaleno grazie a Netflix).

Di aziende ne vedremo tante, e di carri di aziende, durante le parate di questo weekend, e a quella di Milano del 24 agosto. Che si sia creata un’eccessiva pacificazione? E si sia perso lo scontro? Due anni fa, con Francesco Urbano Ragazzi abbiamo concepito la ristampa delle prime quattro annate della rivista del Fronte unitario omosessuale italiano: “Fuori!”, 1971-1974”, una grande bombarda peraltro supportata da Levis (sia chiaro, bene rimarcarlo) senza i quali non ci sarebbe stata, e per preciso beneplacito dell’associazione torinese.

Lì abbiamo conosciuto a Torino uno degli esponenti centrali del collettivo, Enzo Fusco, che ci ha raccontato delle mazzate che ha preso e della galera che si è fatto in quegli anni. Non dimentichiamoli. Così come durante un grande workshop di 5 giorni (due settimane fa, parte del public program della mostra al Mudec), Romi Crawford ha rimarcato come la questione sul terreno africano sia tutt’altro che risolta e allargato il campo alla condizione in Italia.

L’arcobaleno - nelle culture più antiche - conduce (se lo segui) a una pentola d’oro ma può anche condurre e portare disgrazie. È anche un avvertimento, e l’aria che tira la conosciamo.

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