La libertà di espressione non è più quella di una volta. Soprattutto in Francia, che della libertà di scrivere, dire, disegnare assolutamente tutto aveva fatto un principio non-negoziabile, in ricordo di quelle luminose giornate di fine Settecento in cui era nata la République. 

Lo ha scoperto a sue spese il fumettista Bastien Vivès. Nato a Parigi nel 1984, autore di successo, adorato dal pubblico e dalla critica, pluripremiato, tradotto anche in Italia, Vivès doveva essere celebrato con una prestigiosa mostra personale al festival di Angoulême. Annullata, però, in seguito alle proteste e a una petizione firmata da centomila persone

Cancel culture, direte voi? Qualcosa del genere, sì, ma prima di saltare alle conclusioni valutate un attimo per quale ragione è stata chiesta la sua testa: tre volumi pornografici, pubblicati tra il 2011 e il 2018, nei quali l’autore mostra delle scene di stupro e incesto su minorenni. In uno di questi, Petit Paul, il protagonista è un bambino di otto anni.

Certo, un bambino immaginario non può soffrire di violenze disegnate. Sono reati senza vittima, come venivano chiamate un tempo le offese contro la morale e il buon costume.

Ma i tempi, evidentemente, sono cambiati: oggi siamo più sensibili agli effetti indiretti delle rappresentazioni - imitazione, esempio, banalizzazione… - e all’eventuale apologia di reato.

Soprattutto sono sensibili i francesi, che negli ultimi due anni sembrano aver scoperto di avere con la pedofilia un grosso problema in casa.

Dalla tolleranza alla consapevolezza

Sono lontani i tempi in cui Le Monde poteva pubblicare una petizione, firmata dai più importanti intellettuali di sinistra tra cui Simone de Beauvoir, Jean-Paul Sartre e Gilles Deleuze, contro la penalizzazione dei rapporti sessuali con minorenni. Era il 1977.

Due anni dopo, Michel Foucault andava in radio per denunciare la repressione della pedofilia “consensuale”: secondo il filosofo, in assenza di violenza o di prostituzione non c’è crimine, solo un pervasivo panico morale.

Negli stessi anni, e fino a metà del decennio successivo, il quotidiano Libération pubblicava testimonianze, apologie e persino annunci a tema pedofilo

Il mea culpa del giornale è arrivato vent’anni dopo, nel 2001, accusando lo spirito del tempo e l’idea in buona fede che la rivoluzione sessuale dovesse abbattere tutti i tabù, distruggendo la prima tra tutte le istituzioni repressive: la famiglia.

L’eredità deformata di Sigmund Freud, filtrata dalle elaborazioni di Wilhelm Reich, di Herbert Marcuse e dello stesso Foucault, aveva prodotto un incubo. Ma la Francia stava lentamente iniziando a svegliarsi.

Bisognerà attendere l’onda lunga del #MeToo americano perché il tema irrompa al centro della scena. Tra il 2019 e il 2022 non si contano gli scandali venuti alla luce, e che occupano ormai ogni giorno le prime pagine dei quotidiani: scrittori, registi, youtuber, universitari…

In questi casi come in quello di Vivès è stato determinante il ruolo di una nuova generazione di femministe.

A colpire l’opinione pubblica è stata l’impunità di cui godevano i responsabili di abusi: negli ambienti artistici e intellettuali parigini, di tutta evidenza il sesso con minorenni, per quanto minoritario, se “consenziente” era tollerato.

Ma negli ultimi due anni il concetto stesso di consenso, con buona pace di Foucault, è stato rimesso in discussione: come si può parlare di consenso a fronte del condizionamento psicologico che l’adulto esercita sul minore? 

Una società che cambia

Bastien Vivès, da parte sua, non ha compiuto nessun crimine: si è solo limitato a rappresentarlo. Accompagnando le opere, è vero, con alcune dichiarazioni infelici e violente aggressioni verbali ad alcune colleghe.

La linea difensiva del fumettista è chiara: l’arte costituisce per lui uno spazio di pura libertà in cui dare libero corso alle fantasie, anche le più immorali e deplorevoli. 

I suoi difensori hanno paragonato i disegni di Petit Paul alle vignette di Charlie Hebdo e il suo caso agli storici processi per offesa al pudore che colpirono più di un secolo fa Gustave Flaubert e Charles Baudelaire.

Nelle parole di Richard Malka, avvocato di Charlie: «Mi spaventa questa giustizia di strada che usa la violenza verbale per eliminare un artista che non è mai stato implicato in nessun caso di pedofilia, e che dissotterra opere che all'epoca non erano state oggetto di alcun processo».

Per i detrattori, il problema è un altro: all’artista sembra non passare per la testa che il tema delle sue fantasie costituisce un gigantesco problema sociale sul quale sarebbe opportuno evitare di scherzare o creare confusione.

Secondo un rapporto pubblicato nel 2021 sul sito Statista, 10 per cento della popolazione francese dichiara di essere stata vittima d’incesto, di cui 83 per cento sono di sesso femminile; poco meno di un migliaio di denunce per violenze sessuali su minori sono state fatte, al mese, nel 2022.

Il luogo più frequente: il domicilio. Il colpevole: un familiare, al 95 per cento un maschio.

A colpire, nelle statistiche, è il raddoppio dei casi in un decennio, che indica probabilmente un aumento delle denunce, e quindi un vero cambiamento culturale.

Segno più evidente di questo cambiamento è proprio come si è rovesciato il giudizio sull’opera di Vivès. La pubblicazione nel 2011 del volume esplicitamente pornografico Les melons de la colère, che raccontava con compiacimento la storia di una giovane ragazza ripetutamente abusata, non gli aveva impedito di ottenere il finanziamento del Centro Nazionale del Libro né di vincere pochi anni dopo un premio importante al festival di Angoulême per la sua serie Lastman.

Nel 2018, alla pubblicazione di Petit Paul per un importante editore parigino, c’erano già state polemiche furiose ma queste si erano spente dopo qualche settimana.

Oggi, dopo la petizione e l'annullamento della mostra, è scattata contro Vivès una denuncia per diffusione d’immagini pedopornografiche. E ben pochi colleghi fumettisti alzano la voce per difenderlo.

La responsabilità dell’artista

Se Bastien Vivès è colpevole, allora non è il solo: sono colpevoli i suoi editori e sono colpevoli i critici che hanno promosso questi volumi, cogliendone il lato scherzoso e paradossale.

Il vero mistero non è tanto che ci sia oggi una polemica, quanto che molti di quelli che protestano ora erano stati zitti prima, per anni o persino decenni.

Ma fino a prova contraria Vivès non è colpevole, perlomeno di fronte alla legge, visto che la giustizia aveva già archiviato il suo caso nel 2018.

Semmai è legittimo chiedersi se sia opportuno che la sua opera, al cuore di violente tensioni e drammatici problemi sociali, riceva finanziamenti pubblici e venga celebrata in contesti istituzionali. È questo, principalmente, che chiedono le femministe. 

A leggere il (goffo) messaggio di scuse pubblicato dall’autore, sembrerebbe che la sua vera colpa sia stata di prendere un po’ troppo alla lettera lo spirito del tempo.

In fondo Vivès non ha fatto altro che ripetere meccanicamente quella narrazione illuminista da Terza Repubblica che ogni francese si sente ripetere fin da quando va a scuola, ovvero che la storia dell’arte si confonde con la storia della libertà e che l’artista non deve farsi vincolare dalla morale comune.

Il fumettista s’immaginava forse come un erede di Jean-Jacques Pauvert, l’editore che per pubblicare le opere del marchese de Sade aveva condotto negli anni 1940 una lunga battaglia giudiziaria contro una Francia “arretrata” e “bigotta” che ancora sventolava il vessillo della morale.

Quel vessillo è tornato a sventolare. La libertà assoluta - sembrano dirci oggi le femministe e le minoranze culturali, contro gli adoratori dell’universale - serve solo a chi può esercitare la sua libertà da una posizione di forza. Per tutti gli altri, la vecchia morale non è poi un rifugio tanto scomodo.

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