È notte, la cappella è buia e deserta. A piedi nudi, in camicia da notte, il bambino si arrampica sull’altare e stacca i chiodi da mani e piedi sanguinanti di Cristo crocifisso. È un Gesù vivo e libero quello che scende dalla croce e si allontana, fuori dalla chiesa, verso il mondo. Si è tolto dal capo la corona di spine.

È la visione più folgorante e provocatoria che Marco Bellocchio affida a Rapito, a Cannes in concorso il 23 maggio e dal 25 nelle sale italiane. È un’immagine ancora più radicale della bestemmia de L’ora di religione, è come ritrovare l’estremismo poetico de I pugni in tasca in forma più meditata e più universale. Il punto di vista di Bellocchio sul cattolicesimo e sulle religioni in generale non è mai stato più nitido.

La storia di Edoardo Mortara, sottratto bambino ai suoi genitori israeliti il 24 giugno del 1858, nella Bologna dello stato pontificio, per allevarlo nella fede cattolica, è ancora così emblematica da appassionare, a tanta distanza, studiosi, letterati e registi, ed è una piaga aperta negli annali della chiesa di Roma.

Per molti anni Steven Spielberg ha accarezzato il progetto di un film da girare in Italia. Aveva individuato le location (tra Viterbo, Tuscania e Caserta) e gli interpreti principali, Mark Rylance e Oscar Isaac. Aveva prenotato il Tony Kushner di Lincoln come sceneggiatore. Il canovaccio glielo forniva il romanzo di David Israel Kestzer, The kidnapping of Edoardo Mortara (in italiano Prigioniero del papa re, BUR Rizzoli).

Avrebbe probabilmente fatto un buon film, ma di tutt’altra natura. Bellocchio si ispira invece (con Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati e Daniela Ceselli) a Il caso Mortara di Daniele Scalise (Mondadori) ma anima, sguardo e ferocia sono inconfondibilmente suoi.

Principio assoluto

Edoardo ha quasi sette anni quando a Momolo e Marianna Mortara (Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi) viene intimato, in piena notte, di consegnarlo ai gendarmi. L’ordine arriva da sua santità Pio IX, al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti, ed è inappellabile. Su delazione di una domestica quel bimbo ebreo risulta battezzato in segreto.

Per questo sequestro l’inquisitore Pier Gaetano Feletti (un gelido, esemplare Fabrizio Gifuni, l’Aldo Moro appena premiato dai David di Donatello) non verrà mai perseguito. Il rapimento è violento, lacerante, pubblico. Recluso con altri innocenti “infedeli” nell’istituto romano dei Catecumeni o Neofiti, un seminario espressamente istituito per la conversione dall’ebraismo, dall’islam e da confessioni religioni diverse, Edoardo dovrà imparare l’arte della finzione e dell’ipocrisia per difesa e sopravvivenza, finché il lavaggio del cervello non sarà completo e definitivo.

La battaglia dei Mortara contro il sequestro non finirà mai, contagia la comunità ebraica internazionale, infiamma i giornali e l’opinione pubblica liberale, perfino Napoleone III gradirebbe una marcia indietro del papa re. «Non possumus – replica il Pio IX impassibile di Paolo Pierobon – si può rinunciare a tutto ma non a un’anima che Dio ha conquistato con il suo sangue».

I delitti contro l’umanità commessi in nome di un principio assoluto: è questo il nocciolo incandescente che sta a cuore a Bellocchio. «Io ti rapisco perché Dio lo vuole. E non posso restituirti alla tua famiglia. Sei battezzato e perciò cattolico in eterno». «In altre parole – dice il regista – è giusto in nome della salvezza ultraterrena schiacciare la vita di un individuo, peggio ancora di un bambino che non ha, in quanto bambino, la forza per resistere, per ribellarsi».

Ed è chiarissima la sua lettura politica della vicenda: «Rappresenta la volontà disperata, e perciò violentissima, di un’autorità ormai agonizzante di resistere al suo crollo, anzi di contrattaccare. I regimi totalitari hanno spesso dei contraccolpi che per un momento li illudono di vincere, come il breve risveglio che precede la morte».

La fantasia di Bellocchio

Arriveranno le truppe sabaude con la breccia di Porta Pia (Rapito dimostra che si può fare grande cinema storico senza produzioni faraoniche e mirabolanti effetti speciali), tramonterà il potere temporale del papa, la folla scatenerà riserve di rabbia contro il carro funebre di Pio IX, ma Edoardo Mortara non rinnegherà la fede subita, diventerà prete, e in seguito predicatore e missionario.

Proverà perfino a convertire sua madre in punto di morte. «E questo – per il regista – è un affascinante mistero che non si può liquidare col solo principio di sopravvivenza. Possiamo guardare da fuori il “fenomeno” o, con amore e partecipazione, tentare soltanto di rappresentare un bambino violentato nell’anima e poi un uomo che, fedele ai suoi violentatori che crede suoi salvatori, diventa alla fine un personaggio che ci esime da ogni spiegazione razionale».

La storia è buona, ma è la fantasia di Bellocchio a farla volare. Sono suoi gli occhi del piccolo Mortara (nel ruolo Enea Sala è di una efficacia sorprendente) davanti alla sconosciuta liturgia cattolica, riti che gli appaiono funerei, paurosi e quasi tribali. Il crocifisso è un oggetto strano: gli dicono che Cristo era un ebreo come lui, come lui battezzato, ma che sono stati gli ebrei a ucciderlo. Di qui i sensi di colpa, e il sogno-visione liberatorio di Edoardo di cui riferivo all’inizio.

È illuminante il montaggio alternato tra messa in latino e Amidah in ebraico: per Bellocchio non c’è una religione che fa premio sulle altre, ognuna ha i suoi dogmi indefettibili, le sue rigidità, il suo peso fatale sulla vita delle persone. Gli ebrei sono ricattati e perseguitati dal papa re («convertitevi tutti e vi riportate a casa vostro figlio», dicono ai Mortara) ma è sempre il potere politico a dettare le condizioni di dominio e subalternità. Il corso di autodifesa ipocrita impartito da Elia, piccolo romano verace del ghetto, al nuovo arrivato («tocca fasse furbi!») è irresistibile.

C’è l’ironia grottesca di un incubo notturno papale che materializza una vignetta di satira dell’epoca: un’orda di rabbini circonda a sorpresa il suo letto per circonciderlo. Dulcis in fundo, Edoardo cresciuto, in un assalto incontenibile di devozione verso Pio IX, per un pelo non lo manda al creatore: è una zampata di puro humour noir bellocchiano. Si può osservare la giusta distanza verso le zone d’ombra che sfuggono alla ragione, mai però rinunciare a sé stessi. In questo caso, il «non possumus» vale.

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