Nel 1931, a due anni dal primo cancellierato di Adolf Hilter, un avvocato olandese, Ferdinand Bordewijk, scrive un racconto distopico che intitola Blocchi. Il testo narra la vita di una città-stato completamente squadrata in isolati lineari, dove le case sono scatole cubiche, le aiuole quadrate, le strade immancabilmente rette.

Gli abitanti di questa città, brachicefali dai denti bianchissimi, si muovono su nastri trasportatori che portano ognuno a destinazione, senza possibilità di errore.

Tutto qui fila dritto, perché tutto è dritto, illuminato, spalancato e aperto: è il regno della geometria razionale e della libertà controllata.

La particolarità di Blocchi, però, non sta tanto nell’aver profetizzato la vita sotto i totalitarismi, quanto aver mostrato come l’orrore di una simile città rettificata sia figlio di quell’ansia tutta occidentale che desidera rimuovere dalla realtà le barriere e le differenze, del desiderio religioso di ricostruire la Torre di Babele, riassumendo nell’Uguale ogni diversità sotto il dominio di una pace perpetua e della vaghezza dell’identico.

E se è certo che una simile tensione ha animato parte del pensiero occidentale sin da tempi remoti, è vero altresì che essa sottende anche al processo di globalizzazione, reso possibile, per la prima volta nella storia umana, dalla rivoluzione digitale.

Questi ed altri fenomeni contemporanei sono ormai da anni al centro delle riflessioni di Byung-Chul Han, tra massimi interpreti del nostro presente, il cui ultimo testo pubblicato in Italia per Nottetempo, Iperculturalità,  riassume bene i temi affrontati dal filosofo, tentando di fornire un modello concettuale in grado di specchiare le dinamiche del presente.

Dopo la distanza

Si interroga Han: se le nuove tecnologie di comunicazione e informazione (ICT) tendono ad annullare le tradizionali coordinate spaziotemporali e con esse le relative distanze e differenze, viviamo nell’epoca della fine delle culture?

Siamo tutti dei «turisti in camicia hawaiana» che vagano per il mondo, liberi dai gravami della storia, dalle ideologie e dalle religioni, oppure viviamo nell’inferno dell’uguale descritto da Bordewijk?

«Where do you want to go today?» recitava il claim di Microsoft nel 1994, magnificando le infinite possibilità offerte dal World Wide Web e dal suo sistema operativo Windows.

L’intero mondo era pronto ad affacciarsi su un altrove che fino a quel momento era stato sideralmente lontano e nel giro di un ventennio sarebbe stato possibile parlare, vedere, scrivere, registrare, fotografare tutto, istantaneamente, stando fermi a sbirciare dalla propria finestra.

Eppure questo miracolo antropocentrico dell’ubiquità digitale interroga da vicino le nostre identità: dove finisce l’Altro, il diverso, il luogo? È la rimozione dei confini oppure la loro presenza a garantire felicità e libertà?

Cos’è l’ipercultura

Nella retrospettiva fornita da Han, la moderna cultura europea è stata a lungo informata dal pensiero dialettico.

Eppure, tale discorso, pur fornendo uno strumento adatto a descrivere dinamiche di potere agonistiche – come quella tra dominatore e dominato, colonizzatore e colonizzato – non sembra più idoneo a rappresentare la realtà odierna.

Per il filosofo, la dialettica tra opposti rischia di incappare nella pretesa di sintesi, che può manifestarsi ora con l’ibridazione multiculturale e la cultura della tolleranza – quel discorso, cioè, che tenta di assimilare un elemento ritenuto inferiore a uno considerato “nobile” o dominante, in cui però macerano inevitabili le differenze –, ora in una ricomposizione tra opposti che nasconde ancora il mito dell’Uno religioso.

Tutto ciò è però inefficace a spiegare il nostro mondo; né una dialettica inter-, multi- e neppure transculturale (intesa come superamento delle differenze) è infatti in grado di esprimere lo svolgimento dei nostri rapporti con il reale. C’è bisogno di una nuova definizione, quella che Han chiama Iper-cultura.

È la diffusione massiccia degli strumenti digitali, per il filosofo, ad aver strutturato profondamente le caratteristiche della cultura contemporanea, rendendo centrale l’approccio che egli definisce “ipertestuale”.

La messa in rete della realtà vi permette libero accesso e libero percorso attraverso modalità che, però, differenziano del tutto la “navigazione” online da quella reale. Affacciarsi sul virtuale infatti presuppone un movimento non lineare e asistematico, un procedere per balzi irregolari.

Nell’ipercultura tutto è concomitante, a portata di mano. Legata all’esperienza del consumo, essa promette una gamma di sterminate e simultanee possibilità; percorrere il mondo messo in rete è saltellare da un link a un altro, obliquamente, in un intrico dove aprire un’infinità di finestre per guardare una realtà che si presenta «deeply interwingled», profondamente intrecciata, secondo la celebre definizione di Theodor Nelson.

Oltre lo spazio e il tempo 

Proprio la compressione della realtà in questo groviglio, che Han associa alla figura del rizoma di Deleuze, è ciò che conduce anche alla mutazione delle coordinate di spazio e tempo.

Se la temporalità classica, fondata sulla linearità, viene trasformata in «un universo di bit, di atomi, un universo-mosaico in cui le possibilità, in assenza di un orizzonte mitico o storico, ronzano come puntini», senza più nulla da “rivelare” al suo termine, anche lo spazio subisce sorte analoga.

La spazialità iperculturale per Han è «deterritorializzata, deinteriorizzata, sradicata»; non è più un “luogo”, ossia un posto connotato, misterioso e identitario, ma è ridotta a spazio riproducibile e interscambiabile. Non c’è più un altrove, «l’altrove è solo un altro qui»: dove vuoi andare oggi?

In Umano, troppo umano Nietzsche tratteggia un nuovo tipo di umanità. Liberatosi dai fardelli della religione, l’uomo può finalmente percorrere il mondo come un libero viandante in grado di vivere e paragonare costumi, pensieri, civiltà, une accanto alle altre.

E però, osserva Han, questo pellegrino non ha nulla a che vedere con la nostra condizione, benché l’iper-realtà sia certamente animata da una perdita dei radicamenti identitari e dalla nietzschiana morte di Dio.

L’uomo iperculturale infatti è più simile a un turista che a un pellegrino, non solo perché quest’ultimo ha ancora bisogno di muoversi in una realtà ordinata e rettilinea, ma soprattutto perché le acquisizioni del turista non sono più lente, faticose, dolorose e profonde come quelle di un cammino dello spirito.

Ed è proprio questa differenza di approccio a impedire alla filosofia tradizionale di afferrare completamente il nostro mondo. Il turista non varca le soglie con la sofferenza del pellegrino – figura che sintetizza la lentezza e lo sforzo dei processi di conoscenza e acquisizione culturale della tradizione –, ma col sorriso di chi sta giocando. Egli è prima di tutto un homo ludens.

Da uomo a utente

A differenza dei tradizionali approcci lineari al mondo, che presupponevano in sostanza uno scavare al fondo delle cose per coglierne con affanno il senso ultimo, l’attività dell’uomo iperculturale è ludica, ilare, parziale.

L’utente è infatti chiamato dai suoi strumenti a intrattenere un’esperienza col mondo fondata sulla pura estetica – come avviene ogni volta che guardiamo una pubblicità –,  giocando a bighellonare in una realtà colorata e variopinta, pensata, appunto, per il turista – non diverso da un consumatore.

Han tuttavia non si limita alla critica e si interroga sulla natura di tale fenomeno: dovremmo salutare l’uomo iperculturale come un uomo finalmente libero da vincoli ideologici e pratici che ne impediscono l’agire?

Oppure dovremmo piangere l’eclissi dell’aura dei luoghi e dei tempi? Non ha un suo proprio splendore questa realtà in cui l’“essere qui” coincide con l’essere “ovunque”?

Coerentemente con la sua opera filosofica, da sempre concepita come un lavoro in corso, Han ci abbandona a questi interrogativi provvisori convinto che aderire il più possibile nella forma ai suoi oggetti di studio, tanto scivolosi e sfuggenti, offra la possibilità di conoscerli meglio.

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