Un anno fa ho incontrato Byung-Chul Han: era il 29 ottobre 2021, e il filosofo coreano era a Roma per una serie di incontri pubblici curati da nottetempo. Noi avevamo organizzato una sua lectio magistralis sulle “non cose” presso La Galleria Nazionale, ed è stato lì che ci siamo conosciuti, un’ora prima dell’incontro, e abbiamo condiviso qualche buon bicchiere di bianco.

Dal vivo Han è sobrio, cordiale ed elegante. Non parla inglese, sicché le nostre conversazioni sono state mediate da una traduttrice o dal mio pessimo tedesco.

Dopo i soliti convenevoli e qualche sua riflessione sulla bellezza dei giardini di Roma (Han si dichiara un giardiniere provetto) e della Galleria, mi ha stupito con una considerazione sugli incontri precedenti: «C’è tanta gente attenta qui. In Italia leggete e ascoltate bene».

Mistero Han in Italia

Ora, se c’è qualcosa di cui sono abbastanza sicuro da editore e autore, è che in Italia si legga pochissimo. Del fatto che si ascolti ancora meno non c’è neanche da specificarlo, essendo il nostro un popolo di bocche gigantesche e microscopiche orecchie.

Nelle classifiche, i pochi libri di saggistica che nel nostro paese vendono più di un migliaio di copie a settimana sono quasi tutti trainati dalla televisione. Il resto è self help di bassa lega o vaghe operazioni commerciali.

Eppure, i libri di Han rappresentano una delle rare eccezioni: pur essendo testi non banali, sono quasi sempre un successo di vendite, al pari di quanto accade in altri paesi più educati alla lettura. Vale la pena, allora, domandarsi perché Han venga letto così tanto in Italia.

Perché Han è così tanto letto in Italia?

Un primo abbozzo di risposta è piuttosto semplice: perché descrive in maniera chiara e poetica alcuni problemi centrali del nostro tempo, e lo fa con un tono apodittico che spinge chi legge a pensare “È esattamente così”.

Alcuni critici di Han sostengono, a questo proposito, che le sue riflessioni siano viziate da un reazionarismo di fondo, un’opposizione aprioristica alla tecnologia e al neoliberismo che ne inficia la profondità filosofica.

Il fatto è che Han scrive, se non per tutti, per molti, cercando di veicolare riflessioni complesse attraverso trovate stilistiche potenti, coniando nuovi termini efficaci e utilizzando spesso film e eventi del contemporaneo per far riflettere sulla nostra caduta nel tempo.

C’è senz’altro un fondo reazionario nei suoi testi, che si trova se si cerca inutilmente tra le sue riflessioni una qualche spinta innovatrice e progressista sul piano politico-sociale, o una seppur minima lode a un qualche aspetto della nostra società contemporanea.

Pure Vasco

Eppure è particolarmente amato da musicisti e artisti, che per molti versi incarnano per mestiere lo spirito del tempo: il 5 gennaio 2022 Vasco Rossi ha pubblicato sui propri social una foto con la costa di 12 libri di Han su uno scaffale della sua libreria, corredata dalla seguente didascalia: «È un filosofo contemporaneo, me ne sono appassionato. Indaga l’uomo moderno e l’era del digitale. Questo Tempo che crea “connessioni” invece che “relazioni”».

Sorvolando sul fatto che in quel post l’abbia ribattezzato “Buyng-Chuh Han”, il cantante è tornato spesso sul filosofo coreano nel corso delle sue ultime interviste.

A Repubblica, durante un dialogo sul lancio di tre storie di Dylan Dog ispirate alle sue canzoni, ha spiegato ad esempio: «Byung-Chul Han dice che oggi viviamo nel “mondo della prestazione” e non abbiamo neanche più bisogno di un padrone che ci sfrutta: ci auto-sfruttiamo da soli per realizzarci, convinti di essere liberi».

Un altro Vasco, stavolta Brondi, ottimo referente generazionale dei trentenni di oggi a partire dal suo progetto “Le Luci della Centrale Elettrica”, ha recentemente prestato la propria voce per l’audiolibro de La società della stanchezza, testo capitale del filosofo coreano.

Nei suoi concerti Brondi cita e legge spesso estratti da Psicopolitica, Nello sciame, Elogio della Terra, e il pensatore di Seul è sempre presente nelle bibliografie dispensate ai fan a fine concerto (piccolo inciso: ce ne fossero, di cantanti così).

I cardini del pensiero di Han

Han è magistrale nell’offrire, nei suoi pamphlet quasi sempre molto agili, visioni chiare su problemi complessi: In Perché oggi non è possibile una rivoluzione, appena uscito per nottetempo e che raccoglie vari saggi brevi e interviste, scrive ad esempio:

«Il sistema di dominio neoliberista è strutturato in maniera profondamente diversa. Il potere stabilizzante non è più repressivo, bensì seduttivo, e non è più così visibile come sotto il regime disciplinare. Non c’è una controparte evidente, non c’è un nemico che opprime la libertà e contro cui sarebbe possibile opporre resistenza».

Questo è uno dei cardini su cui ruota il pensiero di Han: a una società disciplinare, che censurava e imponeva, si è sostituita una società della performance, che seduce e incita ad auto-sfruttarsi, spingendo a diventare servi e padroni di se stessi.

Perché oggi non è possibile una rivoluzione raccoglie spunti variegati che coprono quasi un decennio: il più vecchio è un articolo sul rapporto tra Morte e Trasparenza, apparso su Die Zeit nel 2012; il più recente è La pandemia e la fine del liberalismo, scritto per Die Welt nel marzo 2020.

Ne emerge un Han piuttosto solido, che torna spesso sui propri pensieri e che nelle interviste tocca concetti espressi nei suoi libri, o che talvolta anticipa nelle rare conversazioni temi che tratterà poi nelle opere successive.

È il caso, ad esempio, del concetto di Feudalesimo Digitale, che affronta nel pezzo uscito due anni fa su Die Welt: «Oggi viviamo in un feudalesimo digitale. Come ho notato anche in altre occasioni, i feudatari digitali, per esempio Facebook, ci danno la terra e ci dicono: è gratis per voi, ora aratela. E noi ariamo all’impazzata. Alla fine passano i proprietari e prendono il raccolto. In questo modo l’intera comunicazione viene sfruttata e sorvegliata. Un sistema efficientissimo che non incontra proteste, poiché sfrutta la libertà stessa».

Su questo concetto Han aveva già riflettuto in Mi spiace, ma i fatti sono questi nel 2014, una conversazione avuta con Niels Boeing e Andreas Lebert presente nel volume:

«Da un punto di vista strutturale questa società non si distingue dal feudalesimo del Medioevo. Vige la servitù della gleba. I feudatari digitali come Facebook ci danno la terra e dicono: aratela e l’avrete gratis. E noi questa terra l’ariamo all’impazzata. Dopodiché passano i padroni a prendere il raccolto. Questo è sfruttamento della comunicazione. Comunichiamo gli uni con gli altri e ci sentiamo liberi, mentre i signorotti traggono capitale da questa comunicazione».

I rischi del pensiero di Han

Con Han, il rischio è quello di farsi bastare la bella formula e non approfondire, andando oltre una visione che spesso è volutamente apocalittica e tranciante, crogiolandosi nell’idea che “si stava meglio quando si soffriva meglio”.

Cosa forse non del tutto falsa, ma di sicuro inutile perché porta soltanto ad aumentare la quantità del proprio dolore, e non la qualità.

Ma Han a mio avviso va letto come un mistico o un poeta, prima che come un intellettuale tout court. Non si sostituisce ai nuovi classici del pensiero che cita e aforizza, da Il Capitalismo della Sorveglianza di Shoshana Zuboff all’opera omnia di Baudrillard, Arendt e Marcuse. Han è un bombarolo del pensiero, figlio dell’incontro tra Nietzsche e Laozi, costruttore di capitoli che in fondo sono lunghi aforismi, ordigni eleganti e funzionanti che i lettori possono utilizzare nella vita quotidiana per dare e togliere significato a un tempo che appare loro sempre più incomprensibile e inabitabile.

Non si può chiedere ad Han di animare i personaggi sulla scena o di dare profondità alle scenografie: il suo lavoro teatrale consiste nel creare giochi di luci sul palco, mettendo in evidenza con un faro quel che appare e soprattutto quel che rimane all’oscuro, togliendogli luce. Insomma, se oggi Han non è sufficiente per capire il mondo (ma chi lo è?), è sicuramente necessario come uno degli operatori fondamentali per la riuscita del grande spettacolo in cui ci siamo cacciati.

Cuori su Skype

Alla fine di quell’incontro in Galleria Nazionale, giunto il tempo delle domande dal pubblico, un ragazzo si è fatto avanti per primo. Era visibilmente emozionato, ma conquistato il microfono ha chiesto senza mezzi termini al filosofo coreano se non considerasse i propri scritti come eccessivamente normativi.

«Lei ha fatto vedere aspetti negativi della digitalizzazione, - ha incalzato il ragazzo - però Holderlin diceva che “dove è il pericolo cresce anche ciò che salva”. Secondo me Benjamin ha capito bene questa frase, a differenza di Heidegger. Per esempio nelle rivolte di Hong Kong, in Cile, negli Stati Uniti l’uso emancipativo della tecnologia e della digitalizzazione ha avuto un ruolo importante. Non crede di essere troppo normativo quando parla di digitale e tecnologia?»

Han aveva appena concluso una lectio di quasi due ore piena di invettive contro una società distopica e tecnocratica.

La sua risposta, quindi, non potè che spiazzare l’uditorio:
«Non sono un filosofo romantico o romanticizzante. Ho studiato Metallurgia, sono un tecnico metallurgico. Ogni mezzo, anche quello digitale, ha un potenziale emancipatorio, tanto il libro quanto lo smartphone. Io ho uno smartphone e sono un appassionato giardiniere, lo uso ad esempio per identificare specie di piante che non conosco».

Ma non si era fermato a questo. Quel che aveva detto subito dopo fu tenerissimo e spiazzante:

«Non sono contro Skype, per esempio. Qui a Roma per raggiungere la mia famiglia lo uso, e mi diverte molto lanciare loro una pioggia di cuori spingendo un tasto. Skype riesce a lenire il dolore della mia solitudine».

Non c’è tempo per le soluzioni

Nel seguito di quella risposta aggiungeva di non avere nulla contro la digitalizzazione in quanto tale, ma di sentirsi in dovere di mostrare non il lato angelico, ma quello diabolico del nostro tempo. «Nel mio caso c’è un po’ di nostalgia verso quel tempo analogico che mi ha visto crescere. Voglio ricordare quali perdite comporta l’evoluzione, l’innovazione, lo sviluppo. Il mio è un lavoro di ricordo».

Nell’intervista per lo Zeit Wissen Mi spiace, ma i fatti sono questi, contenuta appunto nella raccolta di nottetempo, Han aveva già descritto questa sua funzione pubblica di poeta nostalgico, che spesso gli impedisce di elaborare soluzioni e tenere insieme critiche distruttive e costruttive.

«Ascolto Bach per ore e ore. Non so se sarei rimasto in Germania così a lungo senza di lui, senza il Viaggio d’inverno di Schubert, senza Dichterliebe di Schumann. Mentre studiavo Filosofia ho cantato molto, soprattutto i Lieder di Schumann e Schubert, e ho preso anche lezioni di canto. Cantare il Viaggio d’inverno con l’accompagnamento del pianoforte può essere molto bello...

Zeit Wissen: Vede che ci sono delle belle cose! Lei investe molto tempo a parlar male del mondo.

Byung-Chul Han: Porto i miei studenti sull’orlo della disperazione raccontando loro tutte queste problematiche. Quando due lezioni fa ho detto che oggi avremmo riflettuto sulle soluzioni, c’è chi ha applaudito. Finalmente! Ci salva dall’angoscia!

Zeit Wissen: Che bello. Anche noi volevamo parlare con lei di possibili soluzioni.

Byung-Chul Han: Volevo arrivarci, ma poi ho illustrato ulteriori problemi.

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