C’è di che rimanere perplessi girando per le sale dei Giardini e dell’Arsenale o tra i padiglioni nazionali di quest’ultima Biennale Architettura di Venezia diretta da Hashim Sarkis. In più momenti – troppi – si ha la sensazione di visitare la Biennale Arte.

Varcata la soglia del padiglione centrale dei giardini, uno schermo sul pavimento mostra una folla compatta vista dall’alto. Minuscoli esseri umani si muovono in massa simili a insetti, poi una parte di loro si colora di rosso. Si tratta di un’opera dell’artista israeliana Michal Rovner, già esposta alla Biennale Arte nel 2003. Nella grande sala successiva pendono dal soffitto, appese con corde di canapa, una miriade di pietre di ossidiana. L’intento è quello di evocare le grotte Mbai in Kenya. Il tavolo sottostante è destinato a riunire quanti vogliano affrontare un dibattito sullo stato dell’arte architettonica in Kenya.

Aggirandosi per le sale ci si imbatte tra l’altro su una foto a colori 100 x 160 cm circa di un iceberg sul quale si trova un uomo intento a scongelare la massa di ghiaccio con la fiamma ossidrica. L’opera è del giovane artista ecologista svizzero Julian Carrière.

Non mancano scheletri in contenitori di vetro che richiamano le problematiche ampiamente battute in arte del post-human o tende di ispirazione tribale. E non mancano tronchi di alberi e massi. Ce ne sono più di quanti se ne sono visti nelle mostre di Arte Povera dagli anni settanta. Le installazioni degli artisti-architetti Olafur Eliasson e Thomas Saraceno realizzate insieme ad altri architetti potrebbero essere tranquillamente presentate in una Biennale Arte.

Così come sono a tutti gli effetti installazioni d’arte quelle di Pinar Yoldas (vedi foto), architetto, artista e teorica, la cui ricerca è indirizzata ai temi che concernono l’antropocene e le tecnoscienze. Che si tratti di un intervento interessante è fuor di dubbio, ma la percezione che se ne ricava è che abbia usato la Biennale Architettura per presentare un suo lavoro da artista. Ma se ne ricava anche la sensazione che la presenza degli artisti serva a presentare gli architetti come artisti. Se la tesi è che la linea di confine tra le due discipline si è assottigliata sempre più, perché si continua a organizzare una Biennale di arte e una di architettura?

Tra i padiglioni nazionali mi ha colpito quello israeliano, dove un collettivo di architetti ha tra l’altro ricostruito una morgue al centro della quale si trova un contenitore in acciaio inossidabile le cui celle si aprono a turno meccanicamente mostrandoci non cadaveri umani, ma scheletri e scarti di animali. L’installazione, inserita in una mostra dal titolo Land Of Milk And Honey, riflette sui cambiamenti ambientali e sul modo in cui si è modificato il rapporto tra essere umano e animale nel territorio israelo-palestinese nel Ventesimo secolo. «La preferenza per la resa e la trasformazione del territorio», precisano gli autori, «è avvenuta a prezzo di danni irreparabili agli habitat naturali e alla fauna e alla flora locali, nonché dello sconvolgimento dei modi di vivere dell’uomo». Interessante. Ma come si traduce tutto questo in un progetto concreto come richiede l’architettura? Inoltre, se un’installazione del genere può essere presentata in una Biennale Architettura, cosa dovranno inventarsi gli artisti che parteciperanno alla prossima Biennale Arte?

L’architettura che salva

Intitolata How will we live together? l’intento di questa Biennale è sollevare domande sulla possibilità di dare vita a un’architettura sostenibile che, a detta del direttore artistico, salverà il mondo. Con tono da manifesto politico programmatico, il direttore Sarkis ha lanciato il suo architetti di tutto il mondo unitevi per costruire l’alternativa a una politica incapace di progettare il futuro di un pianeta migliore, di superare le dinamiche del Ventesimo secolo e rendere possibili nuove forme di sostenibilità. Basta «aspettare che i politici propongano un percorso verso un futuro migliore», dice. «Come artisti, sfidiamo l’inazione che deriva dall’incertezza (…), come costruttori, attingiamo dal nostro infinito pozzo di ottimismo per fare ciò che sappiamo fare meglio». Sarà dunque l’architettura a salvare il mondo dal declino climatico, dall’eccessivo sfruttamento delle risorse, dal buco nell’ozono, dallo smog, dallo scioglimento dei ghiacciai, dall’innalzarsi delle acque. È la promessa che una nuova rivoluzione è alle porte. Ma è realmente così?

Che la proposta di Sarkis sollevi temi importanti e condivisibili è fuor di dubbio. Ma è altrettanto vero che è da oltre due decenni che si parla di “architettura sostenibile”. Sono stati sperimentati materiali cementizi in grado di assorbire l’inquinamento, software capaci di sfruttare le falde acquifere per il riscaldamento delle case, “pelli” fotosensibili con cui rivestire gli edifici, che possono generare energia. Giusto per citare alcuni degli obiettivi di sostenibilità legati all’ambito del costruire, obiettivi che non si risolvono riempiendo di alberelli i balconi. Alle soluzioni di sostenibilità si approda attraverso tecnologie avanzate molto costose, questo significa che un’architettura sostenibile è possibile solo attraverso grandi investimenti finanziari. Paradossalmente, lo sviluppo di progetti così ambiziosi è legato agli interessi economici di quello stesso capitale – e alle decisioni della politica a esso asservito – cui si deve la responsabilità dei disastri che affliggono il pianeta. Per quanto possa essere costruito con criteri di sostenibilità avanzata, un grattacielo destinato a proprietari d’appartamento milionari non può diventare un modello di salvaguardia del pianeta. Un’alternativa sarebbe tornare a vivere in villaggi organizzati contro sprechi e inquinamento: qualcuno crede realmente che una soluzione del genere possa essere praticabile?

Le installazioni, i progetti presentati alla Biennale Architettura come opere d’arte autonome dimostrano che buona parte degli espositori stanno attraversano una crisi di identità che ha fatto perdere loro di vista la differenza che intercorre tra arte e architettura. Che qualche interrogativo queste opere ce lo pongano è innegabile, le perplessità non nascono dai temi trattati, ma da come questi temi sono stati tradotti e presentati sul piano formale, dal modo in cui si contaminano con l’arte visiva.

Presentare forme che incarnano un significato senza proporre soluzioni è una dinamica legata alle arti visive, non all’architettura. Il messaggio che questi architetti e i vari collettivi ci (ri)propongono a Venezia è tanto chiaro quanto vecchio di oltre mezzo secolo: l’architetto è anche un sociologo, un filosofo, un teorico. Se non è nulla di tutto ciò è poco più che un geometra. Quella dell’architetto è dunque, secondo la tesi reiterata a Venezia, una delle figure più complesse nell’ambito delle arti visive. L’architettura insomma, come madre di tutte le arti, salverà il mondo. Nel frattempo, chi ci salverà dagli architetti che, nel voler essere più artisti degli artisti, destituiscono la fase progettuale a favore della teoria? Ben venga la teoria, sia chiaro, ma se la teoria in architettura non trova il suo sbocco in una soluzione, a cosa serve?

Quando gli artisti crescono

Aspirazione comune a tutte le arti è far emergere un intreccio fra razionalità progettuale, dimensione storica e tensione metafisica. Laddove questo intreccio si manifesta, l’arte, qualunque sia la sua natura e il suo linguaggio, incide profondamente sulla vita degli individui. Diversamente è ineffettuale, non riesce ad alimentare alcuna passione, limitandosi a offrire immagini gratificanti o seduttive. Anche la linea d’orizzonte che connota la fisionomia di una città esprime la compresenza problematica di tradizione storica, tensione metafisica e razionalità progettuale.

Arti visive e architettura riflettono le aspirazioni e le ansie di autori che danno corpo a una visione del mondo che è insieme personale e collettiva. Contrariamente però a quanto avviene nell’opera d’arte, che dà corpo a immagini prive di utilità pratica, l’architettura trova la sua ragion d’essere nel dare sbocco concreto alla nozione di abitare. Questa specificità conferisce all’architettura una maggiore responsabilità sociale rispetto a quella che si assume l’arte?

Se ci chiedessero di scegliere tra l’avere un tetto sotto cui ripararci e la possibilità di ammirare ogni giorno i capolavori del Louvre, risponderemmo di sicuro che avere un tetto sotto cui ripararci è un bisogno primario, superiore al godimento del bello. Per quanto risponda a una logica basilare, il discorso non può tuttavia essere ricondotto alla mera funzionalità dell’architettura. Se ci bastasse avere un tetto sulla testa non sentiremmo la necessità che gli edifici e i luoghi in cui abitiamo rispondano a soluzioni formali strettamente connesse alla cultura di un luogo, di un preciso momento storico. Secondo questo ragionamento, trascendendo la soggettività del suo autore per diventare testimonianza dello spirito che l’ha animata, l’architettura sembrerebbe possedere le stesse prerogative dell’arte.

Nel 2000 Vito Acconci, uno dei protagonisti della Body Art, da me invitato a scegliere una frase per la copertina di Tema Celeste, rivista che allora dirigevo, propose di scrivere: «Quando gli artisti crescono, diventano architetti e pianificatori urbani». Nel linguaggio comune «crescere» significa lasciarsi alle spalle il tempo dei sogni e delle utopie che attiene all’infanzia e all’adolescenza, che sono fasi della vita segnate dalla mancanza di responsabilità. Convinto che l’arte, contrariamente all’architettura, si sia sottratta alle sue responsabilità sociali, che viva ancora nel mondo dorato dell’infanzia e del sogno, negli anni ottanta Acconci ha declinato il suo lavoro nella direzione della «public art», che ha inteso come l’opera di chi «non si occupa degli edifici ma dei marciapiedi, non delle strade ma delle panchine ai lati delle strade». Per Acconci dunque l’artista adulto è colui che, presa coscienza delle proprie responsabilità sociali, mette la creatività al servizio di tutti, comprese quelle persone che con l’arte non hanno familiarità. Questa concezione dell’arte ingloba anche il concetto di architettura e design.

L’architettura cui si riferiva Acconci non è quella dei grandi progettisti ai quali è dato di cambiare l’orizzonte dei paesaggi urbani, ma quella degli artisti che apportano un contributo nel definire la natura degli spazi urbani attraverso interventi che, seppure marginali, incidono sulla percezione e sull’uso di un determinato luogo. Questo concetto è ben distante da quello di scultura come arredo urbano. C’è da chiedersi a questo punto se adattare l’arte alle funzioni dell’architettura fa di un artista un architetto, se dare forma scultorea a un grande edificio fa di un architetto un artista o se dar vita a progetti visionari fa di un architetto un artista visivo. Certamente, come l’artista visivo, anche l’architetto può essere un visionario – anzi, è bene che lo sia – ma a differenza dell’artista non può dare immagine all’impossibile. Non può permettersi, per esempio, la fuga dalla realtà. Ed è questo a mio avviso il punto debole di questa Biennale. È tuttavia pur vero che negli ultimi decenni la questione ambientale ha assunto una tale rilevanza da rendere secondarie le priorità poste in passato da artisti come Acconci. L’arte e l’architettura hanno dovuto far propria la cultura dell’ambientalismo, confrontarsi con temi come l’intelligenza artificiale o la biotecnologia. La questione riguarda l’incidenza di una cultura in continua evoluzione, anche per effetto delle nove acquisizioni scientifiche, sulle espressioni artistiche.

Arte e cultura distinte

Per quanto strettamente connesse, arte e cultura, vanno distinte. Come ha sottolineato Hannah Arendt, l’arte è il punto di partenza imprescindibile per comprendere i fenomeni culturali, in quanto la forma che essa si dà è affrancata dalle necessità contingenti e dalle finalità di uso. «Mentre tutte le cose delle quali ci circondiamo sono quel che sono in quanto hanno una forma in cui apparire», ha chiarito Arendt, «l’opera d’arte è la sola a esser fatta per un esclusivo fine di apparenza». In altre parole, se guadiamo un oggetto che deve assolvere una funzione, il nostro giudizio sarà condizionato dalla sua capacità di assolvere al meglio quella funzione. Questo è quel che accade quando guardiamo un oggetto di design, ma anche quando guardiamo un qualunque oggetto d’uso comune.

Come l’arte anche l’architettura crea immagini, ma il suo obiettivo primario non è progettare una forma, ma dare una forma a un progetto e organizzare lo spazio in funzione dell’uso cui è destinato. Questo non significa che per l’architettura la forma sia irrilevante e che la funzione sia la sua unica preoccupazione. Non si tratta di interrogarsi sulla capacità dell’architettura di essere creativa, attuale, visionaria, espressione dello spirito del tempo, e molto altro ancora. A nessuno verrebbe in mente di mettere in discussione il suo valore culturale. La questione, che anche questa Biennale pone, riguarda il rapporto attuale che arte e architettura hanno con le masse, con l’ambiente, con le nuove acquisizioni scientifiche, con gli effetti della Rivoluzione telematica. Riguarda come l’arte e l’architettura si mostrano e cosa finiscono per rappresentare in un contesto globale in cui la comunicazione passa sempre più attraverso la rete e la tv digitale.

Ridisegnare lo skyline

Basta osservare la sede della China Central Television (2004-2008), nel Central Business Discrict di Pechino, per comprendere quanto l’architettura possa sconvolgere il tessuto urbano di un luogo connotato culturalmente. Progettata dall’architetto olandese Rem Koolhaas, dal progettista di origine tedesca Ole Scheeren dell’Office for Metropolitan Architecture (OMA), questo straordinario e formalmente innovativo edificio alto 234 metri, che muta di aspetto a seconda della prospettiva da cui lo si osserva, e che da lontano evoca l’immagine di un gigantesco arco di trionfo, è concepito come un logo tridimensionale della città di Pechino. Come tale è infatti percepito e pubblicizzato. Rispondono alla stessa logica il Beijing National Stadium (2003-2008), progettato dagli svizzeri Jacques Herzog e Pierre de Meuron e l’imponente Burj Al Arab (Torre degli arabi) di Dubai (1990-2000), disegnato da Tom Wright, il quale ha previsto che sorgesse su un’isola artificiale espressamente realizzata. A definire il progetto di questo spettacolare e ardito albergo alto 320 metri è stata l’esigenza dello sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum di far costruire un’architettura che divenisse il logo di Dubai. Muovendo da questo presupposto il Burj Al Arab è stato realizzato a partire da una forma approvata dallo sceicco, quella di una vela che spicca in mezzo al mare. È stato adattandosi a questa forma, oggi riprodotta anche sulle targhe delle automobili di Dubai, che sono state trovate le inedite soluzioni ingegneristiche e strutturali che ne hanno consentito la costruzione. In sostanza, privilegiando l’immagine, l’apparenza, il Burj Al Arab ribalta l’idea di chi ritiene che l’obiettivo primario dell’architettura sia l’uso cui l’edificio è destinato. L’obiettivo, per ammissione dello stesso sceicco, era aver un edificio-simbolo di un luogo proiettato nel futuro e capace di attirare l’interesse della nuova finanza internazionale. Questi esempi testimoniano che la valutazione economica di un edificio-simbolo è divenuta la risultante del valore di due specificità: quella materiale, legata al mercato reale degli spazi abitabili, e quella dell’immagine esterna dell’edificio, legata al mercato virtuale. Il dato inedito di questo fenomeno consiste nel fatto che il valore dell’immagine sulla rete è svincolato dal valore dell’immobile sul mercato edilizio. Questa strategia presuppone che, per rispondere alle leggi della comunicazione globale, l’architettura ignori le specificità territoriali. Questo è quello che è avvenuto ed è a partire dalla presa di coscienza delle conseguenze di questi fenomeni che, con tutte le perplessità sin qui espresse, manifestazioni come quest’ultima Biennale Architettura hanno un senso. Servono a dare più peso a un fenomeno, a far sì che attorno a certi temi ci sia sempre più consenso.

È ancora tempo di archistar?

In quest’ottica la figura dell’archistar, tanto in voga negli ultimi decenni, legata com’è al mondo della finanza viene vista sotto una luce diversa. Hanno ragione, su questo sì che hanno ragione, i tanti architetti che, indossando i panni degli artisti, sognano l’ossimoro di un’architettura utopica ma possibile.

Il termine “archistar”, ricordiamolo, è entrato nel linguaggio comune a partire dal 2003 per connotare gli architetti che suscitano l’interesse dei media, grazie ai quali riescono ad accedere a finanziamenti multimiliardari. Rimarcando il carattere ideologico di un’architettura che si definisce “postidelogica”, nel 2011 Renzo Piano ha dichiarato che «l’archistarismo distoglie dalla concentrazione creativa, ti proietta diabolicamente, gentilmente e quotidianamente solo sul riconoscimento pubblico. Confonde il pubblico con il popolo, fa diventare chi progetta maestro di parole, a volte di menzogne». Affermando che «l’archistarismo confonde il pubblico con il popolo» Piano evidenzia che l’architettura spettacolare del nuovo millennio è più l’espressione di un nuovo manifesto ideologico che la risposta concreta alle esigenze di quanti negli spazi di nuova progettazione devono vivere e lavorare quotidianamente.

Come dargli torto? Ecco da dove nasce l’impronta ideologica di questa contestabile Biennale. Contestabile per molti versi, ma non inutile, perché è solo dal dibattito e probabilmente solo dal contrasto tra posizioni estreme che alla fine nascono le idee migliori.

 

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