Dopo un anno e nove mesi dal primo lockdown e dopo circa due anni dal probabile ingresso del Covid in Italia, il secondo Natale con la pandemia si presenta all’insegna dell’incertezza: non si sa ancora se la variante Omicron sia talmente diversa dalle precedenti da mettere fuori gioco i vaccini attualmente esistenti (pessima notizia) e se la sua diversità vada nella direzione di un attenuarsi della virulenza (buona notizia, perché sarebbe un passo verso l’adattamento del virus al suo animale ospitante, cioè noi).

Di fronte a questo orizzonte, che in quanto umani viviamo come un bivio e che per il virus è semplice evoluzione, si può forse tentare un bilancio provvisorio di ciò che ci ha insegnato fin qui l’aggressione pandemica ancora in corso; la prima nella storia a realizzarsi pienamente in un mondo globalizzato e tecnologico.

Contraddizioni della tecno-medicina

Abbiamo imparato che lo sviluppo tecnologico della medicina sta evitando moltissime morti (morti che riusciamo a sopportare sempre meno), ma ha anche innescato un processo che mai si era visto finora: fatto di rapidità sorprendente ma ricco di imboscate e di contraddizioni contro un avversario così subdolo e ancora scarsamente noto.

Due secoli fa sarebbero morti tutti quelli che dovevano morire e poi la malattia sarebbe diventata endemica o si sarebbe rifugiata in sacche remote e settoriali; ora è tutto più complicato, a ogni ostacolo che poniamo corrisponde una contromossa del virus; gli inevitabili rallentamenti, o i ritorni indietro, o il dover ripartire da nuovi presupposti (insomma il galileiano “provando e riprovando” che è tipico della scienza) sono talmente rimarcati dai media che il pubblico si divide tra fiducia cieca e rabbiosa delusione – tra chi ha deciso di adorare acriticamente la tecnologia (mi inietto anche il diavolo se la scienza me lo dice) e chi odiandola mette in risalto il suo essere dipendente dall’economia e dalla politica, fino a dubitare della sua neutralità e perfino della sua efficacia (stanno pasticciando per far soldi, non metto a repentaglio la mia salute per dar retta alle loro diavolerie).

Abbiamo imparato che, nonostante tutte le dichiarazioni di buona volontà, alla pandemia mondializzata non corrisponde nessun serio desiderio da parte degli stati nazionali di adottare strategie effettivamente comuni; perfino i singoli partner europei emanano leggi e decreti in modo indipendente, ascoltando gli umori più o meno duraturi dei rispettivi elettorati – per non parlare dell’Africa che come al solito è considerata l’ultima della classe a cui riservare solo gli spiccioli.

I morti in Amazzonia o nel Maharashtra suscitano brividi estemporanei, ma poi nessuno si incarica di divulgare e discutere quel che sta effettivamente accadendo in Brasile o in India, per esempio perché ora in Brasile i contagi siano così bassi.

I vaccini cinese e russo, più che come risorse nella lotta, sono trattati come strumenti della Guerra fredda. L’unico nascosto e indicibile motore di solidarietà è quello che tiene unita l’internazionale dei ricchi contro i poveri interni ed esterni (“non ci si salva da soli” è una bella frase da ripetere quando sto tra la gente, ma se devo rinunciare alla mia dose booster per lasciare che un miserabile nella capanna di fango si faccia la prima, beh allora meglio insistere sull’insipienza dei governi e sulla crudeltà dell’industria farmaceutica).

Abbiamo imparato che discipline come la statistica e il calcolo delle probabilità non godono di buona stampa, come la matematica in generale; cinquanta vaccinati in terapia intensiva su quaranta milioni, e cinquanta non vaccinati su quattro milioni, per molti significa che “i vaccinati si ammalano esattamente come i non vaccinati, lo dicono i numeri”.

La logica perduta

L’ignoranza delle masse, che non ci faceva grande effetto quando la vedevamo espressa allo stadio o nei quiz televisivi (“Hitler ha compiuto il suo trionfale viaggio a Firenze e a Roma nel 1971”) ci colpisce di più ora che si esercita su fantasiose teorie di manipolazioni genetiche e progetti di sostituzione etnica e misteriosi microchip installati sottopelle.

La spettacolarizzazione è un ostacolo alla democrazia, e la madre della ragazza deceduta per una reazione avversa al vaccino pesa da sola, nell’economia di una trasmissione, come milioni di vaccinati normali. Questione di campionatura. Il controllore che alla richiesta di un passeggero (“vuole vedere il green pass ?”) risponde “non sono mica Draghi” salta a pié pari decine di passaggi logici.

Abbiamo imparato che l’emergenza è il momento peggiore per ragionare e che la didattica a distanza non favorisce gli exploit pedagogici; che di fronte all’emergenza le destre tendono a essere anarchiche, muscolari e in gruppo all’ombra del Capo, mentre le sinistre sono più ligie alle regole ma individualiste e inclini a spaccare il capello in quattro.

Visto e assodato che nessuno vuole davvero far saltare il sistema, è abbastanza ovvio che chi ne irrigidisce i lati peggiori e più autoritari sia anche colui che con più lucidità sa puntare il dito sulle magagne dei lati migliori (ma proprio per questo più dubbiosi e non alieni dall’autocritica).

Abbiamo imparato soprattutto che il consumismo sta forse cambiando casacca ma non cambierà strada; il Pil è una formula magica e tecnicamente complessa dietro cui ognuno di noi profani legge semplicemente “la ripresa”, cioè la possibilità di tornare a spendere come prima, a viaggiare e a comprarsi quel poco di benessere che ci garantisce un equilibrio.

In nome del “non possiamo permetterci un altro lockdown” siamo disposti a rinunciare a tutto meno che alla produzione e allo shopping, anche se un nuovo, magari breve, lockdown dovesse apparire la soluzione più raccomandabile dal punto di vista epidemiologico.

Il lavoro a distanza è stato istruttivo, molti lavori del ceto medio non saranno più come prima: mentre i nuovi poveri dovranno accettare l’inaccettabile, gli white collar potranno porre condizioni più affabili e flessibili.

Quel cattivone di Amazon (eliminando i costi di distribuzione) sta in realtà favorendo i piccoli editori rispetto a quelli mainstream. Ma negli showroom di moda hanno capito che oltre agli outfit griffati devono offrire “un’esperienza”, sennò la gente i vestiti se li compra online.

Comprare ormai vuol dire farsi vedere mentre si compra, vivere nella favola del consumo più che consumare ciò che serve. La malattia mondiale che, prima nella storia, ci raccomanda di (e ci convince a) sostituire la nostra immagine alla nostra persona presente non poteva cadere in un momento migliore, stabilisce con l’odierno stadio del consumismo una bizzarra omologia.

La pietra e la fionda

Tante cose abbiamo imparato, in quest’anno e mezzo estremamente nutriente dal punto di vista cinico e filosofico; verità che sarà difficile dimenticare a pandemia finita, anche se tutto il nostro essere si sporgerà verso il carnevale ritrovato e verso la rimozione del negativo.

Il problema è che, psicologicamente e creaturalmente, siamo rimasti “quelli della pietra e della fionda”; sotto le mutazioni epocali, sotto la realtà aumentata cioè ridotta a simulacro di sé, sotto l’euforia digitale, vive pur sempre l’animale sociale che ha bisogno di compagnia, che vuole toccare l’altro coi cinque sensi, che grida e salta se ha scoperto qualcosa, che si ferisce scavalcando una punta di roccia, che stringe e balla e fotte.

Come usciremo dalla depressione collettiva che non abbiamo il coraggio di confessare? I vecchi non possono evitare il pensiero che il meglio della vita sia per loro alle spalle, i giovani come reprimeranno il rancore verso chi, essendo oggettivamente più a rischio, gli ha rubato almeno due anni di spensieratezza? E i bambini?

I bambini che avevano un anno quando il mondo si è ammalato, e ora a tre danno per scontato che i nonni li puoi vedere soltanto indossando una maschera, e che le persone sconosciute che entrano in casa si presentano sempre mascherate, e che i viaggi più innocui devono essere trattati come spedizioni pericolose? Che idee si stanno facendo del mondo che li aspetta?

Al tempo della peste la malattia si abbatteva sull’umanità come un cataclisma, faceva strage e poi scompariva magari con un acquazzone; i sopravvissuti si davano pace, anzi erano presi dalla frenesia di ricostruire proprio come dopo un terremoto o un’alluvione.

Ora che le nostre avanzatissime conoscenze hanno trasformato la lotta contro i colpi avversi della natura in una lunga guerra di trincea da combattere come se fosse un videogioco, chi ci garantisce che (tra un livello del game e l’altro) riusciremo a ritrovare il nostro corpo intero?                    

    

       

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