Abbiamo almeno due buoni libri sulla vita di Giovanni Gentile (uno di Gabriele Turi, l’altro di Sergio Romano), e parecchi di più sulla sua morte, ma fino a oggi non avevamo una vera biografia di Benedetto Croce. C’erano vecchi lavori, come quello di Fausto Nicolini o quello di Italo De Feo, ma il primo era un’agiografia più che una biografia, non diceva nulla della vita privata e pochissimo dell’impegno politico, il secondo era una esposizione divulgativa dell’opera del filosofo più che un racconto della sua vita.

Una situazione abbastanza singolare, perché Croce è stato l’intellettuale più influente in Italia nella prima metà del Novecento, e il più conosciuto all’estero, all’incirca come Umberto Eco lo è stato nella seconda metà del secolo. Ma anche un peccato, perché la vita di Croce è tutt’altro che quella di un topo di biblioteca, anche se ha messo assieme una delle più grandi biblioteche private d’Europa, paragonabile a quella di Aby Warburg o anche, guarda caso, proprio a quella di Umberto Eco.

Un uomo con le sue angosce

A ripercorrere la prima parte della sua vita, come ho cercato di fare nel mio Benedetto Croce. La biografia (1866-1918), uscito in questi giorni per il Mulino, si scoprono molte cose curiose e inaspettate. L’immagine tradizionale di un Croce olimpico e pacificato lascia il posto a quella di un uomo spesso attraversato da periodi di angoscia e di depressione, che lui chiamava «neurastenia» o, pudicamente, «nervosità»; l’immagine del «dittatore» della cultura italiana a quella di un pensatore spesso in dissonanza con le tendenze dominanti del suo tempo, e sempre in lotta con l’università, della quale lui, che non si era mai laureato e mai ha insegnato, disprezzava gli inevitabili compromessi, le consorterie accademiche e le corse a farsi i titoli concorsuali. E l’immagine di un benpensante lascia il posto a quella di un anticonformista, non solo nelle prese di posizione pubblica ma anche in quelle della vita privata.

A rendere possibile questo anticonformismo giocava, innanzi tutto, la collocazione sociale di Croce. Discendente da due famiglie di grandi proprietari terrieri e armentizi abruzzesi, i Sipari e i Croce, il giovane Benedetto ha perso il padre, la madre e la sorella nel terremoto di Casamicciola del 1883. Solo lui si è salvato, e si è trattato quasi di una seconda nascita, tanto vero che la biografia che ho scritto comincia da qui, dal terremoto, e poi risale a ritroso alle origini.

Croce viene preso sotto tutela dallo zio Silvio Spaventa, allora consigliere di Stato, andando a vivere da lui a Roma. Così il giovanissimo Benedetto si trova a partecipare alle serate in casa Spaventa, cui prendevano parte giuristi, giornalisti, intellettuali come Antonio Labriola, l’unico professore della Sapienza che gli andava a genio. E quando lo zio, senza attendere la maggiore età (allora si diventava maggiorenni a ventun anni) lo emancipa e lui può tornare a Napoli, si trova a disporre di una ingente fortuna che gli ha consentito di dedicarsi liberamente alle ricerche di storia locale che lo appassionavano, di viaggiare e di comprarsi un sacco di libri all’estero, in particolare in Germania.

A leggere le lettere di Croce e dei suoi corrispondenti di questi anni si scoprono cose singolari. Questo filosofo che Antonio Scurati, nel suo libro su Leone Ginzburg, descrive come un sordido taccagno si trova spesso a soccorrere economicamente gli studiosi che gli sono vicini. Antonio Labriola ottiene ripetutamente prestiti e sovvenzioni per la stampa dei suoi lavori; quando a Gentile, allora professore di liceo, vengono assegnate disagiate sedi meridionali, Croce lo aiuta per le spese impreviste, così come farà quando a Gentile nascerà un figlio dopo l’altro; e quando Matilde Serao ed Eduardo Scarfoglio fondano il Mattino, chiedono a Croce un prestito per pagare i primi stipendi.

Un grande amore

A questa indipendenza economica, sulla quale non mancherà di ironizzare Papini, che lo chiama «padreterno milionario» fa riscontro altrettanta indipendenza nella vita privata. Per un ventennio, dal 1893 al 1913, Croce conviverà con Angelina Zampanelli, una donna di estrazione sociale molto diversa dalla sua, ma con la quale Croce formerà una coppia molto unita e, a sentire gli amici, perfettamente affiatata. Un rapporto che oggi non avrebbe nulla di strano allora poteva essere visto sotto una luce diversa, e Antonio Gramsci ricorderà che quando Croce è diventato senatore (la seconda Camera era di nomina regia, e tutti i senatori erano a vita) c’era chi trovava criticabile che venisse nominato un uomo che conviveva apertamente more uxorio. Quando Angelina morirà per un problema cardiaco, nel 1913, Croce ne ha avuto un immenso dolore.

Gli anni passati accanto ad Angelina sono stati i più produttivi di una vita straordinariamente ricca di opere e imprese culturali. In questi anni Croce è impegnato nello studio delle teorie economiche di Marx, guadagnandosi un po’ abusivamente l’epiteto di “compagno” da parte di Turati e diventando, accanto a George Sorel e a Eduard Bernstein, uno dei protagonisti del revisionismo europeo; completa il suo sistema filosofico, pubblicando L’Estetica, la Logica, e la Filosofia della pratica.

Fonda assieme a Gentile la rivista La Critica, sulle cui colonne si dedica a quella che oggi chiameremmo “la letteratura circostante”, suscitando polemiche con la sua stroncatura di Pascoli e i suoi distinguo sulla poesia di d’Annunzio (col quale si scontrerà anche in tribunale difendendo Eduardo Scarpetta nella causa di plagio intentatagli dal Vate, come sa chi ha visto Qui rido io di Mario Martone). Ma soprattutto, in questi anni, Croce dà vita a iniziative editoriali che plasmeranno a lungo la formazione delle generazioni successive: i Classici della filosofia moderna e gli Scrittori d’Italia, due progetti estremamente ambiziosi (gli Scrittori, nelle intenzioni di Croce, avrebbero incluso seicento volumi) che Croce può intraprendere grazie al sodalizio con un giovane editore pugliese, Giovanni Laterza, col quale collaborerà per cinquant’anni.

La guerra è una stoltezza

Il primo decennio del secolo è anche quello nel quale Croce è più in sintonia con la cultura del paese. Molti giovani d’ingegno (Papini, Prezzolini, Borgese, Serra, Cecchi) gli sono vicini. È pensando a questi anni che Roberto Longhi lo chiamerà, molti anni dopo, «il grande liberatore delle nostre menti giovanili». Ma l’idillio non è destinato a durare. Con molti di questi giovani, solo pochi anni dopo, è già baruffa.

L’anticrocianesimo innerva la cultura italiana almeno quanto il crocianesimo (Cecchi parlerà di una fama «costruita a forza di contumelie»). Dove non arriva la letteratura o la filosofia ci pensa la politica. Non a caso quasi tutti questi giovani (non Borgese) aderiranno al fascismo. Ma è già l’incipiente Prima guerra mondiale a dividerli. Gli universitari sono tutti interventisti; d’Annunzio scalpita; Gentile pure. Croce capisce subito che la guerra non sarà breve, che l’Italia è impreparata, che si tradurrà in un immenso spreco di vite e di risorse. «La guerra è una stoltezza», ammonisce, inascoltato. Anche perché, da sempre ammiratore della cultura tedesca, Croce non vede di buon occhio il rovesciamento delle alleanze. Gli interventisti non gliela perdonano. Croce diventa il cameriere del Kaiser, il boche, cioè il crucco affetto da «lue germanica».

Autobiografo tutta la vita

Croce non amava che si parlasse della sua vita privata. Più volte ha scritto che l’individuo vive solo nella propria opera, che il cuore dell’uomo si vede soltanto «in quello che ha cuore di fare», che tutto il resto non deve interessare nessuno. Detestava il sentimentalismo, lo psicologismo, il ripiegamento su sé stessi. Ma il biografo deve per forza disubbidirgli. E lo deve fare, tanto più che il primo a disubbidire è stato Croce medesimo. Questo filosofo che di sé diceva che voleva diventare «tutto pensiero», come Catullo voleva diventare «tutto naso», in realtà è stato autobiografo tutta la vita, un po’ come Nietzsche che ha scritto la prima autobiografia a quattrodici anni e l’ultima poco prima di impazzire.

Croce, oltre a migliaia di lettere, ha scritto il Contributo alla critica di me stesso, una singolare autobiografia intellettuale, a cinquant’anni; ma prima aveva scritto Memorie della mia vita, nel 1902, e dal 1906 al 1946 ha tenuto un diario, i Taccuini di Lavoro, in cui annotava letture, lavori fatti e da fare, incontri e, solo eccezionalmente, eventi privati. Per il biografo, una bonanza inaspettata, ma anche una sfida non facile, dato che la mole di informazioni è impressionante. Forse è proprio a partire dall’autobiografia e dalla biografia che è possibile, oggi, superare i molti stereotipi che per così tanto tempo hanno distorto l’immagine di Croce.

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