Bob Dylan è il più influente, leggendario artista del mondo. A pensarci un momento, nessuno lo eguaglia – almeno tra i vivi. Ricordo che quando vinse il premio Nobel e neppure rispose alla notizia, mandando Patti Smith a fare presenza a Stoccolma perché lui aveva preso altri impegni, un gruppo di dottorandi che allora frequentavo a Princeton rimase a bocca aperta, indignandosi per la maleducazione (se non il rincoglionimento) di quel cantautore che usurpava lo spazio principe di poeti e romanzieri come se niente fosse, snobbando addirittura l’Accademia di Svezia. Feci anch’io un commento tipo “Ah! Neanche Sartre!” (lui, almeno, il premio lo aveva rifiutato).

L’elegante professoressa che seguiva quegli studenti, una luminare del romanzo moderno e del cinema dell’età dell’oro, scoppiò a ridere. Ci domandò se avevamo presente chi fosse Bob Dylan, quanto rilevante fosse Bob Dylan nella traiettoria culturale dell’occidente contemporaneo, quanto immensamente meno importante, meno grande, meno interessante fosse il premio Nobel (una roba che hanno vinto Frans Sillanpää e Patrick Modiano, per dire) al cospetto dello svettante totem che risponde al nome di Bob Dylan. Che te ne frega del premio Nobel e della buona creanza (e finanche di Sartre!) quando sei Bob Dylan? Una questione di proporzioni.

La denuncia

La settimana scorsa, Bob Dylan è stato denunciato da una signora di sessantotto anni che dichiara di essere stata sedotta, drogata e violentata da lui nel 1965, quando di anni ne aveva dodici. Il crinale sulla pedofilia è ripidissimo. La denuncia, in cui la sopravvissuta è identificata dalle iniziali JC, è succinta e inquietante. Dylan, sfruttando il suo ascendente di rockstar ventiquattrenne, avrebbe stretto amicizia con la bimba al fine di ottenere la sua fiducia nel corso di sei settimane, tra aprile e maggio, invitandola nel suo appartamento al Chelsea Hotel di New York.

Sciolti i freni inibitori con alcool e droghe, avrebbe poi abusato di lei sessualmente, minacciando di farle del male. Gli avvocati di JC esigono di verificare quest’incubo perverso nell’aula di un tribunale perché la vittima sia finalmente risarcita di un danno che, come afferma lei stessa, l’avrebbe ferita e umiliata lungo l’arco di mezzo secolo.

Malgrado il tempo trascorso, la denuncia è valida grazie a una legge dello stato di New York che autorizza i sopravvissuti di violenza minorile ad agire legalmente anche a distanza di decenni, senza limiti di prescrizione. Per descrivere questa legge, appena estesa dal governatore Cuomo, la formula è Look Back Window.

Don’t Look Back è invece il titolo del documentario che D. A. Pennebaker ha girato, seguendo Bob Dylan e il suo entourage, esattamente nel periodo cui risalirebbe lo stupro di JC. Proprio tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, nel 1965, Dylan volava in Inghilterra per prendere d’assalto sette teatri giganteschi, tra cui il Royal Albert Hall, con chitarra e armonica. Aveva appena scritto The Times Are a-Changin, la ballata che aprì tutti i concerti inglesi, quella che cantava alle marce di liberazione su Washington e che ha poi cantato alla Casa Bianca quarant’anni dopo, ricevendo da Obama la medal of freedom.

Al ritorno in America, in giugno, avrebbe pubblicato Like a Rolling Stone. Il film coglie dunque una vertigine assoluta nel pur vertiginoso destino artistico del più grande cantautore mai vissuto. Una vertigine che, se le accuse di JC si dimostrassero fondate, coinciderebbe con l’abisso di un atto disumano, un crimine che nemmeno i più ferventi critici del cosiddetto politically correct potrebbero credibilmente giustificare con il contesto o la moralità d’altri tempi. Se ne può fare, di nuovo, una questione di proporzioni: è sufficiente un abisso simile a inghiottire quell’immagine immortale di Bob Dylan ragazzino profeta, coi Ray-Ban e la giacca di pelle, che prende per il culo i giornalisti a Londra e canta con Joan Baez in un hotel di Sheffield? C’è un punto in cui il mito di un idolo si fa tanto incommensurabile, tanto politicamente ed emotivamente significativo per tutti che persino il più abbietto dei crimini non è abbastanza per scalfirlo?

Cosa succede se guardiamo il documentario di Pennebaker questa settimana, supponendo che prima di partire per l’Inghilterra quell’esanime corpo sacro sullo schermo (al contempo un impacciato ebreo mingherlino del Minnesota e la creatura più carismatica che sia mai apparsa sulla Terra) avesse adescato, narcotizzato, violentato una dodicenne?

Cosa ne è della canzone che apre il film, All I Really Want to Do, in cui quel ragazzo ripete «non cerco di picchiarti, di tradirti, di trattarti male, semplificarti, classificarti, negarti, di oltraggiarti o crocifiggerti baby, voglio solo fare amicizia con te»? Come trasfigurano le giovanissime fan che fischiano sotto la sua finestra, si infilano nella sua macchina, aggrediscono i poliziotti per toccarlo? E come interpretare la domanda che Dylan sbuffa addosso a un Terry Ellis ancora studente di metallurgia, con la chitarra in braccio e la sigaretta in bocca: «Pensi che a qualcuno freghi qualcosa se non ti piaccio?».

Cancel culture fraintesa

Non so se l’ipotesi di un Bob Dylan ebefilo stupratore a ventiquattro anni sarà confermata dal processo. Da critico però, quest’ipotesi tremenda e assoluta mi pare utile a confutare un dannoso malinteso che l’ingiustificato terrore per la cosiddetta cancel culture ha diffuso anche tra i benpensanti, dalle pagine del Guardian e dell’Espresso ai profili Facebook degli zii saputi.

È infatti abbastanza facile capire che un attore denunciato per molestie da quindici ragazzi (e alcune loro mamme), un regista che sposa la figliastra che ha cresciuto, o un professore universitario che si ostina a usare termini razzisti a lezione non sono davvero “cancellati” quando si smette di voler lavorare con loro, di fregiarsi del loro nome, di seguirli. I loro film e serie tv, o i loro libri e saggi, rimangono disponibili su Netflix e in libreria, al limite in biblioteca. A differenza del pensiero e dell’espressione, l’attenzione non è un diritto. Quando però si ha a che fare con una stella della magnitudine di Bob Dylan, torna la questione delle proporzioni.

È con i Michael Jackson e le J.K. Rowling che emerge il malinteso: l’idea che, per continuare a godere dei prodotti dell’ingegno di alcune persone uno debba, come si dice, separare l’uomo dall’artista. Se una cancel culture esiste si tratta semmai di una rimozione psicologica: dell’impulso a cancellare la vita, la condotta, a volte persino le idee di un artista per poter continuare a godere del suo lavoro.

Concepire talento e genio come fossero spiriti talvolta costretti ad abitare indegni gusci umani sembra offrire una soluzione di buonsenso e raziocinio al tranello banalmente capitalista del boicottaggio, che funziona alla grande con mezze tacche tipo politici e attori bellocci, resiste abbastanza bene con porci lapalissiani tipo produttori panzoni e popstar condannatissime per pedopornografia, ma si arresta anch’esso al cospetto di un’icona universale come Bob Dylan. A uno che neanche risponde all’Accademia di Svezia, uno le cui canzoni hanno risuonato per le strade di centinaia di manifestazioni e nelle macchine scassate di milioni di aspiranti poetesse e rivoluzionari in erba, gliene fregherebbe davvero qualcosa se domani smettessimo tutti di comprare i suoi dischi? Sempre una questione di proporzioni.

Arte e biografia

L’idea buonsensaia di separare l’uomo dall’artista è in realtà una roba mistica e ottocentesca, al limite da utopia formalista del secolo scorso. Per quanto sia popolare è desueta. Proprio coloro che si invocano per giustificarla, come Caravaggio o Mozart, devono la longevità dell’attenzione che riserviamo alle loro opere, tra le infinite opzioni della storia della bellezza, almeno in buona parte ai loro miti umani.

Senza quel corpo, quella biografia, quella performance continua che rende arduo non innamorarsi di lui nel film del 1965 in cui finge di non recitare, le canzoni di Bob Dylan non si danno.

Tanto che lui stesso le stravolge a ogni concerto per impedirne la cristallizzazione, l’esistenza stessa al di fuori di lui. Un dato enorme come quello che comporterebbe la conferma delle accuse di JC dovrebbe imporci di rivalutare la sua vissutissima poetica, di trasgredire il titolo di quel film e guardare indietro come finalmente consente anche la legge (almeno a New York), interrogandoci su come il male potesse convivere con il più grande fascino, il più lampante talento, il massimo dell’espressione consentita dai poveri strumenti della canzone popolare nel 1965.

Proprio perché invece Dylan resterebbe pressoché immutato nella memoria dell’umanità, sarebbe bene almeno sforzarsi sempre di prestare orecchio ai sopravvissuti, per quanti dubbi e impulsi di cancellazione le loro denunce suscitino. La morale di questa vicenda è che uno che non ha bisogno del premio Nobel non ha nemmeno bisogno di essere difeso dalla propria biografia.

 

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