Il capitale umano a tre euro l’ora: la realtà dietro le nostre arance e pesche

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è la frutta che diventa un lusso. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. All’alba le campagne del Sud hanno un silenzio irreale. File di peschi, di albicocchi, di aranceti che sembrano ordinati e sereni, una cartolina bucolica che potrebbe finire su una brochure di promozione turistica. Ma basta avvicinarsi, basta guardare chi si muove tra quei filari, per accorgersi che questa quiete è un inganno. Non ci sono contadini che fischiettano felici, non c’è la retorica della terra che nutre e accoglie: se si guarda con attenzione, si vedono corpi stanchi, spalle curve, uomini e donne che si alzano quando è ancora buio e rientrano la sera senza sapere se la giornata gli sarà pagata per intero, a metà o per niente. Sono migranti perlopiù africani, ma anche est-europei, che raccolgono pesche, albicocche, arance, uva. Il frutto che finirà sulle tavole di tutta Italia e oltre inizia qui, nei campi di Rosarno e di Foggia, tra i ghetti della Piana di Gioia Tauro e le baraccopoli della Capitanata. La scena che si ripete è sempre la stessa: baracche di legno, tende sfilacciate, amianto e lamiera che formano interi villaggi paralleli. Qui non arrivano acqua né luce, qui si cucinano riso e fagioli su fornellini di fortuna, ci si lava con taniche di plastica, si dorme ammassati in letti improvvisati. A Rosarno, quattordici anni dopo la rivolta che fece conoscere all’Italia intera il dramma dei braccianti, la situazione non è cambiata. «Viviamo come animali», dicono i lavoratori ai medici e ai volontari che entrano nei ghetti. Eppure ogni inverno e ogni primavera tornano lì, perché l’alternativa non esiste. Raccogliere arance per tre euro a cassetta, pesche e albicocche per cinque euro l’ora: questa è la paga, questo è il prezzo da accettare per sopravvivere. Da Malawi alla Puglia: il cibo del futuro prodotto a Gravina Nel ghetto A Foggia, nel cuore della Capitanata, lo scenario non è diverso. Lì, tra Rignano Garganico e Borgo Mezzanone, migliaia di lavoratori vivono in insediamenti fatiscenti che assomigliano più a campi profughi che a comunità di lavoratori. Ghetti veri e propri, in cui la legge dello stato non arriva e vige solo quella dei caporali. Sono loro che organizzano i turni, decidono chi lavora e chi resta fermo, gestiscono i trasporti verso i campi e pretendono una percentuale sui guadagni. È un sistema che tutti conoscono, dai proprietari terrieri fino alla grande distribuzione, ma che nessuno vuole davvero scardinare, perché funziona: produce frutta bella, resistente, a basso costo. Dietro la facciata dell’Italia dei prodotti tipici, dei mercati colorati, delle sagre che celebrano la bontà della terra, si nasconde un’economia spietata. Si racconta che la frutta sia il simbolo della dieta mediterranea, patrimonio dell’umanità, e intanto si lascia che venga raccolta in condizioni da medioevo industriale. È il paradosso perfetto: la frutta italiana viene venduta come sana, sostenibile, persino biologica, eppure è spesso intrisa di violenza. Nel 2020 un imprenditore di Apricena è stato accusato di sfruttamento perché pagava i lavoratori tre euro e trentatré l’ora, e questo accadeva in un’azienda certificata bio. Biologica l’etichetta, tossica la filiera. Negli ultimi anni più di un bracciante è morto sotto il sole, stroncato dal caldo mentre raccoglieva pesche o uva da tavola. A volte i cadaveri vengono trovati direttamente nei campi, altre volte lungo le strade, quando i pulmini stipati di uomini e donne tornano ai ghetti. Sono morti che non scuotono più nessuno, diventati rumore di fondo, statistiche da scorrere quasi distrattamente. E il lavoro nei campi non uccide solo con la fatica, ma anche con la disperazione: la salute mentale crolla in fretta quando non si ha un posto degno per dormire, quando si vive senza futuro né riconoscimento. Più incidenti e meno ispezioni: chi sono i veri mandanti dei morti sul lavoro Questione di sostenibilità In questo contesto la parola “sostenibilità” risuona come una beffa. Si discute di riduzione dei pesticidi, di imballaggi compostabili, di risparmio idrico, ma nessuno vuole guardare alla sostenibilità sociale. Un’arancia può anche essere certificata a residuo zero, ma se chi l’ha raccolta vive in una baracca senza elettricità, quella sostenibilità è una bugia. Una pesca può anche essere a filiera corta, ma se il bracciante che l’ha colta guadagna tre euro l’ora senza contratto, quella filiera è spezzata. La frutta sostenibile, a prezzi accessibili a tutti, rimane un ossimoro: se costa poco, quasi sempre significa che qualcuno altrove sta pagando al posto nostro. Il meccanismo è semplice e brutale. La grande distribuzione impone prezzi sempre più bassi ai produttori; i produttori, per sopravvivere, comprimono i costi della manodopera; i caporali diventano intermediari indispensabili per reclutare lavoratori disposti a tutto. È una catena di comando che non lascia scampo e che tutti fingono di non vedere. Perché, in fondo, la frutta deve arrivare sugli scaffali a prezzi popolari. È l’illusione di un frutto “democratico”: accessibile, sano, italiano. Ma quella democrazia si regge sull’esclusione dei più deboli. Per un pugno di proteine: come siamo finiti a misurare il benessere in grammi Campagna poco poetica Dietro a tutto questo, c’è poi la beffa del racconto pubblico. Mentre nei ghetti migliaia di uomini e donne piegano la schiena sotto il sole, senza paga adeguata né dignità, la narrazione che passa in televisione e sui giornali è quella di campagne poetiche, di raccolti raccontati come riti antichi, romantici e leggeri. Spot patinati mostrano sorrisi tra i filari, famiglie che colgono frutti maturi con gesti lenti, mani pulite che intrecciano tradizione e natura. È un marketing che vende nostalgia e autenticità, e che serve a ripulire l’immagine di un settore sporco di sfruttamento. La distanza tra queste immagini e la realtà dei campi è abissale: da una parte la pubblicità che celebra la poesia della terra, dall’altra i braccianti invisibili che vivono in baracche senza acqua. La frutta, in Italia, si racconta come un idillio contadino, ma si produce come in un girone dantesco. Consumare questa frutta significa partecipare a una collusione silenziosa. Ogni volta che si mette nel carrello un chilo di arance a un euro o una vaschetta di albicocche a pochi centesimi l’una, si accetta un compromesso: il prezzo basso lo si paga sulla pelle di chi lavora invisibile. Non ci sono scappatoie, non ci sono scorciatoie etiche: o si accetta la verità o si continua a fingere. Per un pugno di proteine: come siamo finiti a misurare il benessere in grammi L’Italia celebra la sua frutta come simbolo di bellezza e di salute, ma non ha mai voluto guardare in faccia il suo lato oscuro. Nei campi del Sud, l’agricoltura ripete schemi coloniali: corpi migranti trattati come forza lavoro usa e getta, confinati in spazi marginali, resi invisibili. Ogni pesca lucida, ogni arancia perfetta, ogni grappolo d’uva che resiste intatto fino al supermercato porta con sé questo retroscena. Il sangue sotto la buccia non è un’immagine, è un dato di fatto. È il prezzo occulto di un sistema che si regge sulla violenza e che, paradossalmente, si vende come naturale, sano, persino giusto. Finché questo non sarà messo al centro del dibattito, ogni discorso sulla frutta sostenibile rimarrà una menzogna. E continueremo a nutrirci di dolcezza insanguinata, convinti di fare il bene nostro e del pianeta mentre in realtà stiamo solo perpetuando un inganno. [Missing Caption][Missing Credit]