L’appuntamento è a Trastevere, in via Garibaldi, «così vedi una zona di Roma a cui sono legato». Carl Brave, al secolo Carlo Coraggio, 33 anni, ha appena pubblicato il suo terzo album, Migrazione, 19 pezzi «che partono col mio vecchio stile, penso a Biscotti che ricorda Notti brave e Polaroid, e finiscono con Applausi, che parla di fama e morte», suggerisce lui.

Sono salita sul treno da Milano, e nelle tre ore che mi separavano dall’incontro più volte ho ascoltato anche Tarocchi, la terzultima, un pezzo che ripercorre con malinconia quella che è stata la sua vita a vent’anni, tra i vicoli della città che “Ti lega co una cinta e ti colpisce co la fibbia, È come una puttana con cui stappi una bottiglia, È un vecchio criminale col Vangelo di Rebibbia”. «Nel racconto di quei ricordi mi sono anche un po’ censurato», sussurra quando gli dico che è la mia preferita. In quelle notti di risse e amici che sono più di una famiglia, sembra di vederci Franchino 126, con cui ha scritto nel 2017 il primo disco, Polaroid, per Bomba Dischi. E anche Ketama, con cui a 22 anni è volato a Berlino e non sapeva ancora che la musica sarebbe diventata la sua vita.

Mentre ci sediamo Yvonne, il suo ufficio stampa gli passa la prima copia del cd: «È la prima volta che lo tengo in mano, “mo me lo spizzo” un attimo», dice.

Perché l’hai chiamato Migrazione?
L’ho scritto in giro, tra Marrakech, Lisbona Tokyo e Madrid. Ho affittato delle case e ho lavorato con musicisti locali e i loro strumenti classici, penso al basso marocchino o allo shamisen, a Tokyo. Cercavo nuove sonorità.

Solo quelle?
No, anche qualcosa che non sapevo bene di volere. Ho composto pezzi più elettronici che però non sono usciti. Ci lavorerò in futuro.

Non è il momento per i rave.
Sì esatto, mi do alla musica classica. In realtà in questi viaggi ho cercato soprattutto di vivere la normalità.

Ci sono tante collaborazioni. Come le hai scelte?
A seconda della sonorità. Con Noemi ho voluto raccontare qualcosa di oscuro, l’opposto di Makumba. A Mara Sattei ho proposto un provino di un pezzo con una melodia flamenca perché lei è in fissa con Rosalia. Poi abbiamo tolto la parte flamenca ed è arrivato Roma è sempre la stessa.

I testi li scrivi d’impulso?
Tabasco è stato un flusso di coscienza, Turbolenze è stato istintivo, Forse è nata da una serata. Lieto fine e Biscotti sono pezzi più di stile.

In Tarocchi c’è malinconia, scrivi che per andare avanti bisogna fare i conti con quello che siamo stati.
Ho imparato a muovermi nella vita.

Sei alto un metro e 95, non ti immagino bullizzato.
Invece è capitato, al primo anno di liceo scientifico. Sono sempre stato un puro, poi ho deciso di sporcarmi un po’. La vita di strada ti sveglia. A vent’anni non sapevo che fare della mia vita, volevo svoltare con la musica ma al tempo stesso facevo lavoretti, montavo e smontavo le casse a Eataly, facevo la guardia dei musei ma stavo diventando pazzo. Sono un iperattivo e in quelle stanze facevo avanti e indietro.

La svolta quando è arrivata?
Quando ho smesso di giocare a basket. A 22 anni ero in B1, ero una promessa, sarei arrivato in serie A. Ma ero stufo di vivere in città piccole, mi mancava Roma e la mia vita. Volevo fa’ la vita di Tarocchi, capito? Volevo godermi la vita. Prendevo 1500 euro al mese col rischio che finisse tutto da un momento all’altro.

Come l’hai deciso?
Ero al Montecatini, avevo perso la partita della finale, la società era fallita. Il mio agente mi aveva proposto di andare a Benevento. E lì ho detto basta vado a Milano a fare una scuola di musica.

Così, da un giorno all’altro.
Avevo preso lezioni da Ketama, cinque o sei pagate con l’erba. Poi sono andato a studiare a Milano, ed è venuto anche lui. Prima ho vissuto in zona Moscova, convivevo con una pischella in una casa grossa come questa stanza. “Se semo ammazzati”. Poi sono passato a vivere in Viale Tibaldi e la ragazza è tornata a Roma.

Era il grande amore di cui ogni tanto si parla?
Ma quale grande amore. Mò so fidanzato. È sempre tutto un tira e molla. In questo disco c’è anche lei ma non vorrei parlarne.

Torniamo a Milano.
Ci sono rimasto due anni, mi sono divertito. Poi sono andato a Berlino, dove sono rimasto lì qualche mese.

E anche lì c’era Ketama.
Sì, dormivamo insieme sul divano di Drone, erano entrambi i miei producer di quando ero al liceo. Abbiamo fatto tante serate in giro, registrato centinaia di tracce, anche da ubriaco. Venivo da una fase sofferente, la fidanzata mi aveva lasciato, ma quando sono tornato in Italia ero centrato sulla musica. E in quel periodo facevo i sogni lucidi.

Sogni lucidi?
Vedevo le cose da fuori, con razionalità ma dentro al sogno. A un certo punto ho pensato anche di scrivere una canzone, peccato che quando mi sono svegliato me la sia scordata. Però quella settimana è uscita la base di Polaroid e ho trovato il mio stile. A quel punto ho chiamato Franco (Franco 126, al secolo Federico Bertollini) e gli ho detto facciamo il disco.

Sui social i vostri fan invocano un ritorno del duo.
Ci vogliamo bene ma musicalmente abbiamo preso le nostre strade. Come hanno fatto in tanti prima di noi, penso ai Club Dogo.

Anche a Ketama sei molto legato ma nessuno chiede nulla.
Con lui non ho mai fatto un disco insieme.

Ti vedi sul palco di Sanremo?
Sì.

Dillo con più convinzione.
La parte che mi spaventa sono le mille interviste al giorno, esibirmi davanti a milioni di persone, e poi è una gara con la classifica.

Che peso ha la politica nella tua vita?
Non amo parlare di politica.

Parliamo solo del fatto che la politica determina le vite anche di chi sceglie di non votare, o non prendere parte al dibattito.
Io personalmente mi sento preso in giro dalla politica. Mi sembra un gioco sporco, non mi sento di appoggiare delle maschere, che cambiano idea in base all’occorrenza, che ci riempiono di cazzate e non fanno nulla di importante per noi. Io continuo a raccontare il mio mondo e le mie storie. E non mi sentirei mai di dire a chi mi ascolta “vota quello”.

Comprendi chi non vota?
Sì. Ci vorrebbe una rivoluzione nella politica. Poi sì, certo, certi valori, come i diritti civili acquisiti per me sono scontati. Dovrebbero esserlo. I miei ideali li trovi nelle canzoni.

Libri che ti hanno segnato?
Bukowski, ho letto tutto di lui. E poi Manuel Vázquez Montalbán, una passione che mi ha tramandato mia madre. Mi sono appassionato prima al suo genere poliziesco poi alla fase culinaria. È stato il primo critico gastronomico spagnolo.

Che cos’hai comprato coi tuoi primi guadagni?
Col basket delle scarpe, le Pump del Grinch.

E con la musica?
Viaggi e cene.

Stellate?
Sì, sono andato in fissa. Anche dei vini.

E la casa?
Sto pensando di mettere insieme i soldi e comprarne una. Vedi, questo è il praticone di adesso che parla. Ho vissuto sempre nello stesso palazzo dov’erano i miei, ora vivo da solo nella casa di un vecchio portinaio, su un piano rialzato, ed è stata la svolta.

Ma la casa che comprerai sarà a Trastevere?
Dipende com’è la casa. Ne voglio una con la piscina. Voi mette l’estate romana con la piscina a casa, salata magari?

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