L’autrice di Orgoglio e pregiudizio viveva in un cottage a due piani a Chawton nell’Hampshire. I suoi capolavori li ha scritti seduta a un tavolino (scomodo) in salotto: mai riparata, mai assorta
Non scherza chi sostiene che la casa in cui Jane Austen visse dal 1809 al 1817 sembra uscita da un suo romanzo. Il giardino piccolo, curato, ma non particolarmente rigoglioso – lontano dall’eccentricità botanica e dalle lussuriose piante del gruppo di Bloomsbury – segna il perimetro di un cottage a due piani di legno scuro, affacciato sulla tranquilla strada della cittadina di Chawton, a pochi chilometri da Londra, nella contea dell’Hampshire.
Si ha l’impressione che dall’antico pianoforte della sala adiacente alla cucina si sollevino allegre sonate a quattro mani. La carta da parati dell’epoca riveste i muri, anche quelli della stanza con il letto a baldacchino circondato da spesse tende color panna. Una certa aura di tenerezza invade il luogo: ogni cosa è piccola, miniaturizzata, fiabesca.
Compreso un tavolino, del quale non ci si accorge tanto è modesto, ristretto, addossato alla parete: della larghezza di un banco di scuola, è abbastanza basso da servire più che altro da mobilio d’arredamento, una di quelle superfici su cui si appoggiano ninnoli e gingilli in ceramica; oggettistica scovata in giro per il mondo, o ai mercatini delle pulci.
Senza una stanza
E invece. Invece è qui che Jane Austen svolgeva il suo lavoro di scrittrice. È qui che si è dedicata alla stesura di Ragione e sentimento (1811), Orgoglio e pregiudizio (1813), Mansfield Park (1814), Emma (1815). Inclusi i romanzi usciti postumi, L’abbazia di Northanger e Persuasione.
Oltre alla scomodità di quello che a tutti gli effetti non era né un tavolo da lavoro né una scrivania, ma più che altro una sistemazione provvisoria, un trespolo d’uccello – quasi Austen avesse voluto suggerire, a sé stessa e agli altri, che non faceva davvero sul serio, che era capitata lì per caso, che si stava giusto appoggiando, momentaneamente e di fretta, allo scopo di buttare giù due righe, certo non una storia, certo non un’opera letteraria – salta agli occhi anche la collocazione, in pieno soggiorno, esposta al viavai domestico, ai rumori, alle chiacchiere, alla comparsa improvvisa di visitatori.
Mai riparata, mai assorta, mai chiusa a chiave da nessuna parte. E si sa quanto questo possa rivelarsi penalizzante per una donna, che più di un uomo rischia di essere fagocitata da un’amministrazione famigliare che su di lei si regge e a lei si vota, tanto che per sfuggirvi, per resisterle non rimane, secondo Virginia Woolf, che fingere di non essere in casa, sparire al di là di una porta.
Autoinganno
Marina Cvetaeva si struggeva, sul ripiano della cucina del suo angusto appartamento di Parigi, per la mancanza di un po’ di silenzio e la conseguente, assoluta impossibilità di lavorare. Alle prese con un bambino piccolo, con le ristrettezze economiche che le imponeva la sua vita di emigrata russa non ancora famosa, piangeva, si prendeva la testa tra le mani, scriveva lettere agli amici in cui supplicava il loro aiuto.
È curioso che Jane Austen sia riuscita a essere prolifica – e a diventare una delle autrici più note e riconosciute del secolo – in un contesto che apparentemente contraddice la predisposizione naturale, necessaria per uno sforzo di concentrazione.
Certo, si potrebbe obiettare che non essendosi mai sposata, non avendo avuto figli ed essendo vissuta quasi sempre alle dipendenze della famiglia, era libera di dedicarsi all’attività letteraria senza grossi impedimenti di sorta.
A maggior ragione, dunque: perché non si spostava in camera sua? Perché non saliva al piano superiore? Perché non ebbe mai il coraggio di comunicare alla sorella, ai fratelli, ai genitori di avere bisogno di un vero scrittoio, di uno studio, di un angolo di autentica pace?
Scrive Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé che Jane Austen era abituata a coprire, a celare le pagine che scriveva dietro un pezzo di carta assorbente. Come se l’unico modo di reperire da sé risorse, risolutezza, determinazione fosse sostare a metà strada, operare una sorta di autoinganno. Se nessuno la considerava veramente impegnata, veramente immersa all’interno della difficile arte dell’elaborazione narrativa, poteva quasi permettersi il lusso di esserlo veramente.
Del resto la biografia che il nipote James Edward Austen-Leigh scrisse sul suo conto circa cinquant’anni più tardi descrive Jane Austen alla stregua di una signorina esemplare, che solo accidentalmente dedicò del tempo alla scrittura, quasi il suo fosse un vivace passatempo per sopperire alla noia dell’esistenza in campagna, niente più che un modo originale d’intrattenersi, tra la filatura di una trama di lana e un ricevimento in salotto.
Nascondersi
Forse il clima di cecità o quantomeno di miopia che la circondava le tornava utile fintanto che era in grado di sfruttarlo a suo vantaggio. Virginia Woolf credeva che Jane Austen considerasse in qualche modo vergognoso il fatto di scrivere Orgoglio e pregiudizio. Ecco perché lo nascondeva alla vista e allo sguardo degli altri. Si può dire, però, che fosse anche un tentativo di proteggerlo: di sottrarlo all’incuria, ai commenti, ai pregiudizi di coloro che aveva intorno.
Forse Jane Austen trovava riposante sostare in quel sottile crinale tra ciò che i suoi famigliari pensavano di lei, tra l’immagine che le attribuivano e la verità; una verità fioca, che forse alimentava alla luce di una fiamma tremula, mai davvero chiarita nemmeno dalla stessa autrice. E in quel gesto apparentemente sbadato, furtivo, reiterato era racchiuso uno scarto di profonda, reale lungimiranza.
Del resto, non si contano le artiste costrette, nel corso dei secoli, a nascondersi dietro uno pseudonimo maschile per poter pubblicare. George Sand e George Eliot sono senz’altro le più famose. Ma perfino Colette ebbe bisogno di firmare i suoi primi lavori con il nome del marito.
Ancora Virginia Woolf: «Era lo stesso senso della castità che imponeva l’anonimato alla donna, perfino nel Novecento… L’anonimità scorre loro nel sangue. Il desiderio di nascondersi dietro un velo è ancora abbastanza vivo in tutte».
Restare velate sarebbe allora un istinto iscritto all’interno del codice genetico femminile. Coincide con la tentazione irriducibile ad adombrarsi, a cedere il passo, a camuffare la propria identità per favorirne una fittizia.
Non esporsi mai: ecco la segreta vocazione delle donne; o meglio, un altro modo di descrivere la loro inclinazione per il pudore. La castità è stata considerata a lungo una caratteristica di importanza imprescindibile, al punto da rappresentare spesso anche l’unica: non stupisce che stenti a morire; che contenga strascichi inevitabili, atteggiamenti che adottiamo ancora oggi nostro malgrado.
La domanda a questo punto è: Jane Austen, di cui ricorre quest’anno il duecentocinquantesimo anniversario dalla nascita, sarebbe stata una scrittrice migliore se non fosse stata implicitamente e continuamente portata a velarsi, a occultare se stessa e ciò a cui lavorava? Oppure, per dirla con Virginia Woolf, è un miracolo sia stata la scrittrice che è stata nonostante l’irriducibile tendenza al nascondimento?
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