Giornali e media hanno ricordato il 24 maggio scorso gli ottanta anni di Bob Dylan celebrandolo in vario modo. Ma se è giusto e doveroso fare gli auguri ad un grande maestro non si può altresì non cantare il lamento di una generazione che ha dissipato i suoi profeti. Non perché quelli non vivano ancora, con le loro parole e la loro musica, nel cuore e nella mente di molti, ma per inveire contro i suoi «maitres-à-penser», gli altri, gli intellettuali e i politici «veri», che si sono invece rivelati grandi solo nel pensiero «pret-à-porter», mutevole con le stagioni, cangiante, caduco ed effimero.

Perché la canzone – non solo quella “di protesta” – è stata molto di più che poesia, in musica, ma pensiero e vita. Che ha aperto porte, illuminato la notte della lotta che non trovava pace, attraversato gli oceani della distanza dei mondi, dato senso, speranza, prospettiva. Se è vero che «a canzoni non si fan rivoluzioni», come cantava quel nostro cantore d’appennino che oggi pare non voler mai rivendicare quei tempi, come se ne volesse liberare, è però vero, e lo sapeva Woody Guthrie, che la chitarra era la sua «macchina per uccidere i fascisti».

Oggi si leggono tante parole un po’ ovvie sul Bob, che resta unico, nella sua grandezza, che ci ha dato sempre tanto. Perché è stato sempre attento ad additare il male che non poteva essere accettato, l’ingiustizia tiranna, la sopraffazione violenta, l’emarginazione abietta. Mostrando il volto nudo dell’animo umano, ma dentro al contesto – sociale, sì – che lo aveva generato. I suoi Hattie Carroll, Ira Hayes, Sarah Jane, Rubin “Hurricane” Carter sono i protagonisti del mondo dei diseredati, degli emarginati, di quelli che fanno le cronache nere ma restano sullo sfondo della grande storia. Che Bob è riuscito a rendere immortali, sfrontatamente davanti a noi per sempre.

Oggi non c’è più nessuno che canta gli Alan Kurdi e se non fosse per la ong tedesca Sea Eye che ha voluto così battezzare una sua nave (o il Ai Weiwei) non lo potremmo ricordare. Perché, si dice, “il mondo è cambiato” e “le canzoni non parlano più di queste cose”. Come Enzo Jannacci, che dedicò una canzone a Natalia, la bambina cui il primario di un grande ospedale aveva operato la valvola del cuore sbagliata («ma perché sono queste le cose che la canzone non dice mai?»).

Perché la politica, oggi, sembra vivere d’altro e così la «protesta», diventata al più introspezione o rumore o, peggio ancora, invettiva «social». Come il povero Alan, come le centinaia che s’abbarbicano ai barconi, come le migliaia che raccolgono i pomodori sui nostri campi e vivono nelle baracche – e magari muoiono sotto una grandine di proiettili perché “rubano” – non è a loro che pensa la canzone, la poesia, la letteratura. Si muore sempre sul lavoro – la vicenda di Prato ha fatto scalpore perché la ragazza era giovane e madre – ma non ha fatto abbastanza.

Con i politici, però, c’è da additare gli intellettuali e gli “opinionisti”. Perché si dice che il mondo è cambiato ma sono stati loro a farci credere che andasse accettato. Guardare avanti, il futuro è l’abusata parola, non più “contestare” ma lavorarci da dentro. Certo, ci sono i rapper, quelli originali, la musica dura dei neri americani ma anche degli emarginati delle banlieues. Ma oggi, nel mainstream non c’è più la canzone “impegnata”.

Nuovi valori

«Questa mia generazione vuole nuovi valori», cantò Franco Battiato, era il 1973, in un album bellissimo e insuperato (Sulle corde di Aries). In barba al Battiato che oggi abbiamo visto dipinto come asceta esoterico ed ironico, che pure fu. Se Bob è stato capace di contenere moltitudini, come i grandi possono, come Walt Whitman, è però vero che senza di lui tanto di ciò che è venuto non sarebbe stato com’è stato. Coerente con sé stesso ha sempre cantato ciò che ha voluto, senza mai dimenticare cosa fosse importante.

Questa mia generazione non ha dimenticato. Non è vero, come dice Michele Serra, che quelli erano «gli anni dell’impegno quasi obbligatorio»: lo erano per chi lo sentiva, e non era obbligatorio. E se l’impegno è passato di moda è anche perché quell’impegno si è spesso infranto contro i distinguo della politica e dei suoi scrivani (e poi di scrittori e letterati), e tra quelli che a quei tempi più urlavano convinti sono in tanti ad aver dimenticato e rinnegato. «Di là da queste tenebre, matura l’avvenire», cantava, seminudo al festival del parco Lambro. Ora si è spento, senza aver rinnegato, il Franco. E oggi, che «il Re del Mondo ci tiene prigioniero il cuore», ci è rimasto Bob, che ancora tiene a dire «la morte è sul muro» (in Key West). Lui, che «è nato sul lato sbagliato della ferrovia, come Ginsberg, Corso e Kerouac» ha da dirci che c’è ancora tanto da cantare, che non ha mai smesso di avere senso. Noi che possiamo solo lamentare di avere dissipato i nostri poeti.

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