Quando percorrevo a velocità supersonica la stretta e breve via che portava da casa di mia madre all’oratorio di Santa Maria di Caravaggio, in porta Ticinese a Milano, non avevo alcuna idea di chi fosse la suddetta Maria, né tantomeno ero a conoscenza del fatto che in una remota città brasiliana, Farroupilha, nel sud del paese, ci fosse un santuario alla stessa dedicato.

Il santuario è addirittura il secondo per affluenza e fama nella grande terra del nuovo cristianesimo e dei mille rivoli capitalistico-evangelici di derivazione americana. Il santuario venne dedicato alla madonna di Caravaggio solo perché la prima opzione (madonna di Loreto, ovviamente più trendy) si rese impraticabile causa l’impossibilità di reperire immagini della medesima, mentre tal Pietro Colzani, lì emigrato, aveva con sé una tela raffigurante la madonna del Caravaggio. Era la fine dell’Ottocento. Oggi il santuario ha una chiesa per più di duemila credenti.

Chissà poi chi era Pietro Colzani e perché mai avesse con sé un dipinto della madonna di Caravaggio, la cui storia, scopro ora scrivendo, perché ci facevano pregare ma non ci hanno mai raccontato perché diavolo si chiamasse “Caravaggio” il nostro oratorio, è piuttosto interessante. In sintesi, la madonna appare a una giovincella (appare sempre a giovincelle la madonna, chissà perché, forse è femminista, la madonna, e ama la gioventù) e le chiede di riportare la pace tra non so quali fazioni avverse; ella prese il tutto molto sul serio e come inviata della madonna ebbe un certo successo.

Non so tracciare una linea retta che divida storia e mito, ma pare che un qualche risultato ella riuscì a conseguirlo. Una storia bella, ignota a tutti noi giovani empi frequentatori dell’oratorio, luogo nel quale, benché fossimo chiamati a una preghiera quotidiana (ci torno dopo), pena l’esclusione dalle competizioni calcistiche, mai nessuno ci parlò. E tantomeno venne mai organizzata la gita al più noto e comodo santuario di Caravaggio, intesa come la cittadina dove avvenne l’apparizione. Nulla sapevo di ciò e forse avrei voluto saperne, ma che importava al mio cuore dodicenne che si precipitava nella via verso l’oratorio e l’agognato campetto da calcio?

La via era intitolata a Borromini, grande architetto del barocco, prima favorito del Vaticano – cosa piuttosto decisiva per un architetto all’epoca – e poi sostituito dal Bernini nelle grazie dei porporati; per questo cadde in depressione e morì trafiggendosi con una spada. Nemmeno questo sapevo, correvo io, solo, pochi metri, meno di cento, all’ora del rush verso l’oratorio e il suo campo da calcio in mattonelle di porfido, collinare, ma con le righe segnate e le porte vere anche se senza reti. Correvo nella via bianca e nera, tagliata esattamente in diagonale da sole e ombra. Era così nei mesi migliori, da primavera a estate inoltrata; la precisione di quella diagonale che io per gioco percorrevo al confine, rispondeva all’esercizio di equilibrismo che è la giovinezza stessa, divisa tra il richiamo della gioia di vivere e la realtà che avrebbe già a quel tempo potuto essere migliore.

Ci si arrivava di corsa all’oratorio, a premere contro la porta di ferro, che si sarebbe aperta alle 15.45 in punto. Era di fondamentale importanza essere lì presto – soprattutto per i più scarsi, poiché la regola era che all’apertura della porta si corresse verso il muro più lontano dall’ingresso e i primi due a toccarlo, quel muro, avrebbero avuto il diritto di comporre le prime due squadre che avrebbero iniziato il quotidiano torneo, basato su semplici quanto durissime regole: si arriva ai quattro, chi vince rimane in campo sfidato dalla squadra composta dal terzo che aveva toccato il muro, e via così fino alla chiusura.

Il torneo si teneva sul campo da basket, da noi definito “a porticine”. Quattro contro quattro, le porte erano i rettangoli alti e stretti che reggevano i tabelloni con i canestri. Da un lato la linea “del fuori” era quella del campo da basket, dall’altro era un muro irregolare, interrotto com’era da una serie di panche in cemento. Valeva il gioco di sponda, ovvero calciare il pallone contro il muro per un passaggio vincente o un dribbling azzardato. Si arrivava ai quattro, in caso di 3-3 si arrivava ai 5. Grazie a dio sapevo giocare a pallone, quindi potevo risparmiarmi la corsa iniziale, anche se qualcuno dei bravi a turno partecipava per mettere in piedi una squadra di quattro forti che potessero provare a vincere tutte le partite fino a chiusura. Mi è capitato ed è stato bellissimo. Vi sto descrivendo il paradiso, se non l’avete capito.

Preti e colline di porfido

A gestire l’oratorio c’era un prete, don Aldo, che poi nel tempo e nel ricordo, mi pare sempre più somigliare a Bruno Vespa. Aveva lo stesso modo di fregarsi le mani e qualche neo. Non era simpatico, ma nella mia memoria, abbastanza equo. Pretendeva da noi semplicemente la partecipazione alla preghiera delle 17, che veniva organizzata nel campo più grande – lasciato agli scarsi e ai bambini o occupato dalle squadre in attesa del proprio turno “a porticine”, che organizzavano tornei di “coppie e rigori” nei quali due squadre da due giocatori si sfidavano ai calci di rigori, un totale di dieci, con 5 tiri e 5 parate per ognuno dei componenti delle due squadre. In caso di respinta la palla rimaneva in gioco e i due componenti delle squadre si univano a quelli che si erano fronteggiati dal dischetto per completare la giocata. Un sacco di botte, sbucciature, e caviglie distorte dalle colline di porfido.

La preghiera avveniva con un rituale ripetuto (altrimenti di che preghiera parliamo?) intorno al cerchio del centrocampo ce n’erano disegnati altri due di raggio maggiore destinate man mano ai più grandi; sul dischetto di centrocampo prendeva posto Don Aldo e noi tutti intorno a rumoreggiare, prenderci per il culo, darci botte trattenute, in attesa che il supplizio finisse, e finiva, presto, anche se al tempo sembravano ore. Nel caso in cui la preghiera fosse arrivata sul 3-3, potete immaginare con quale animo vi partecipavamo. A ogni modo a parte pochissimi di noi a nessuno fregava un cazzo, com’è giusto. E il prete lo sapeva, bontà sua, non se ne faceva un cruccio. Visto da oggi, temo che fosse quello meno determinato: almeno noi avevamo l’obiettivo che finisse per tornare a giocare a calcio. Lui dopo cosa avrebbe fatto?

Comunità

A farmi ripensare all’oratorio (da me frequentato dalla fine degli anni Settanta, bambino fino a poco oltre la metà anni degli anni Ottanta) è stato l’hype intorno alla serie su San Patrignano. Ricordo esattamente il momento in cui mi accorsi che esisteva l’eroina. Avevo dodici anni, era il 1984, e si diceva che un mio compagno di classe, mio grande amico, occhi chiari, campione di arti marziali già alle medie, l’avesse provata.

Non so se fosse vero, non ne parlai con lui a quel tempo, troppa era la paura anche solo a nominarla; vero è, che due o tre anni dopo era un eroinomane. Solita situazione; madre disperata (suo padre non pervenuto); iniziò a sniffarla e poi a farsi in vena. Finì arrestato dopo un regolamento di conti nel quale venne ferito da una coltellata all’addome; aveva con sé un quantitativo sufficiente (bastavano pochi grammi, forse anche una sola dose, non ricordo) per finire in carcere. Non ho avuto più notizie di lui, spero ce l’abbia fatta.

L’eroina arrivò quindi anche all’oratorio. Il primo fu un ragazzo che chiamavamo Giorgione perché era gigantesco, a me sembrava adultissimo ma avrà avuto sì e no vent’anni. Venne subito bandito dall’oratorio, nel quale provava tuttavia a entrare lo stesso, a volte protestando platealmente (di rado si incazzava, ma quando si incazzava faceva davvero paura). È morto su una panchina, con la spada nel braccio.

L’arrivo delle droghe sintetiche e della coca fu il colpo finale. La “compagnia” si spezzò in due, impossibile stare in mezzo: da un lato chi si era fermato alle innocentissime cannette, dall’altro quelli che abbracciarono la montante onda delle pasticche – prima di andare a ballare, all’inizio, e poi anche solo con l’autoradio davanti alla chiesa.  

Io ero un drop-out o un fighetto a seconda del punto di vista; ascoltavo roba figa, il rap che nasceva, i Beasties, quel mondo lì e oltretutto non avevo i soldi per andare in discoteca, o meglio, i pochi che avevo – loro avevano già iniziato a lavorare, io ero andato al liceo, altro spartiacque, li spendevo in altro modo. Insomma, le droghe, anche all’oratorio (o davanti allo stesso, i gradini della chiesa) erano l’elemento cruciale per la formazione dei gruppi; questo dice molto se non tutto sul ruolo sociale delle sostanze stupefacenti, come le chiamavano al tempo.

Io sono rimasto battitore libero, ero in contatto con tutti e dentro nessun gruppo, ero il liceale, il comunista, quello che ascoltava musica assurda e non andava in discoteca. Avrei mille aneddoti per nulla originali, li salto a piè pari e racconto il ricordo che mi ha acceso SanPa, ricordo che è apparso con una chiarezza e lucidità insopportabili e dolcissime al tempo stesso.

Uno

Tra gli eroinomani della piazza il più figo di tutti era Uno (vorrei scrivere il suo nome, ora, bellissimo nome, un diminutivo, ma non lo faccio, anche se mi pare un tradimento più grave che tacerlo, ma meglio essere prudenti). Uno aveva sette o otto anni più di me; era bellissimo. Aveva la pelle scandinava, gli occhi ghiacciati, i capelli biondi corti e forti. Era sempre pieno di graffi, questo me lo ricordo bene. Era muscolosissimo e sempre in formissima, e questo faceva a pugni con quello che ti dicevano sulla roba.

Orfano di padre, sua madre era una gran cattolica, attivissima in oratorio, forse faceva anche catechismo, non ricordo, ma senz’altro bigotta e, per questo, femminilissima. Oggi da adulto la definirei una bella donna. Al tempo sembrava solo una sciura fin troppo curata e con atteggiamenti che non mi tornavano se confrontati con quelli delle suore che gestivano l’oratorio femminile, separato da quello maschile da una porta che imparammo presto a violare per cercare riparo o addirittura organizzare improvvisati giacigli.

Io all’oratorio ho consumato tutte le mie prime volte: sesso, droga e rock’n’roll. In totale sicurezza, aggiungo senza pudore e ringraziando tardivamente la chiesa cattolica romana.

Uno, il biondo, era il più figo, il più duro e, pochi se ne accorsero, il più sensibile. Faceva paura a tutti e quando si incazzava era ancora più minaccioso di Giorgione. Avevamo un rapporto particolare. Gli piacevo – mi diceva che ero il più figo e intelligente, che la mia fidanzata era la più bella e quando avevo moti di gelosia lui mi diceva sempre «Chi è che la riaccompagna a casa la sera? Tu. Finché la riaccompagni tu, non c’è problema».

Il ricordo riacceso da Sanpa è quello di una sera d’estate al tramonto, Uno stava seduto accanto a me sui gradini della chiesa, al solito con una t-shirt di una taglia in meno, che metteva sfacciatamente in mostra i graffi (se li procurava lui, a volte, quando provava a smettere) e i buchi. Sopra gli avambracci i bicipiti crudi e duri. Era appena scappato da Le Patriarche, l’omologo e antesignano francese di San Patrignano, anche negli esiti: fondatore accusato di ogni nefandezza, destituito, condannato a cinque anni di reclusione, poi scappato in Belize e lì morto negli anni zero. Le Patriarche esiste ancora ma si chiama Dianova e sembra sia diventato un posto più sano, se così si può dire. Ma non mi pronuncio su questo.

Quella sera, al tramonto e interrotto solo dalle campane che quando rintoccavano – eravamo sotto il campanile – portavano con sé la potenza della promessa dell’infinito che riducevano al silenzio noi poveri giovanissimi mortali, Uno mi raccontò di una fuga dalle catene, a piedi nudi, da qualche parte in mezzo alla campagna francese; di una rapina in Francia, beccato ed espulso dal paese (questo passo del racconto era confuso) e della sera in cui, dopo aver pensato di avercela fatta, camminando, vide un tale in un’automobile spruzzare via un goccio del contenuto di una pera prima di infilarsela in vena.

Non sono in grado di restituire la forza di quel racconto, della lotta interiore che si combatteva dentro di lui, lui solo, e non riesco nemmeno a ricordare se alla vista della pera a vincere fu ancora l’eroina oppure no. Mi ricordo la durezza e la dolcezza; il sentirmi un privilegiato (ero amico del cattivo affascinante, forte e saggio, e mi voleva bene il cattivo, mi proteggeva quando le cose si mettevano male, per un motivo o per l’altro, sui gradini della chiesa); e la seduzione terribile della paura, della libertà e tutto quanto.

Per molto tempo, dopo quella sera, non l’ho più visto; un po’ perché credo fosse andato via, un po’ perché io ero ormai sempre più spesso con i compagni del liceo, che mi avevano spalancato le porte delle feste fighe in case bellissime e la sensazione di non essere più quello diverso, coi pantaloni stracciati, senza un soldo e la fissa della musica figa; un altro mondo era possibile.

La sezione del Pci

L’altra comunità che frequentavo era quella della sezione del Pci in Via Lagrange. Mi ci portava mio padre. Ricordo solo gran discussioni, votazioni interne, interminabili riunioni con decine di persone iscritte a parlare e una macchina da scrivere, che stava in fondo all’ampia sala e sulla quale schiacciai i miei primi bottoni cagaparole, una macchina esoterica e misteriosa. Scrivevo il mio nome, com’è ovvio.

Mio padre, comunista nonché sindacalista del teatro alla Scala, dove ha suonato per tutta la sua vita… un tipo strano, mio padre. Generoso e dolce, isolato e ossessivo; grande musicista e quindi. Era ed è tutto questo tutto assieme, mio padre. Non facile, la vita, appunto. Ma lo vedo ora. Al tempo mi sentivo, ed ero, con tutta probabilità, molto fortunato.

Divorziarono presto i miei, pareva stessero aspettando solo che passasse la legge. Ma questo ebbe il solo risultato di farmi sentire ancora più figo (beato me) perché all’oratorio ero l’unico ad avere i genitori separati e poi divorziati, appunto, ma dopo; c’era un periodo lungo di trial perché potessero ripensarci, al tempo. Non ci ripensarono.

Né all’oratorio né alla sezione (dove non ero l’unico figlio di separati/divorziati con tutta probabilità, ma ero l’unico ragazzino a frequentarla, quindi non posso esserne certo) ho tuttavia il minimo ricordo di nessuno che facesse parola della “piaga della droga”; tantomeno ho memoria di altri presidi territoriali che si occupassero di un problema che, in quel quartiere di Milano, era divenuto diffusissimo. Un morto al giorno visto da oggi.

Nonostante fosse una comunità piccola e a maglie strette, al modo don Camillo e Peppone: mio padre ateo e comunista sosteneva economicamente la squadra dell’oratorio, che da squadretta locale per tornei minori arrivò a giocare in terza categoria quando io l’avevo tuttavia già lasciata, sedotto da una sontuosa offerta da una squadra di prima categoria. 50milalire a vittoria, boom! Era in zona Gratosoglio, ci andavo in moto e mi sentivo un calciatore fortissimo. Mio padre continuava a sostenere la squadretta dell’oratorio, ormai squadra a tutti gli effetti. Venne a vedermi giocare una volta sola, nella squadra figa. Quella domenica mi ruppi (mi ruppero, per l’esattezza) il ginocchio.

Il problema è sociale

Insomma, la comunità. In qualche modo teneva; soprattutto grazie alla solidarietà tra le famiglie e a queste due istituzioni; oratorio e sezione del Pci. Nonostante a ognuno di noi sarebbe potuto capitare il peggio, accadde a pochi; i più deboli che si fingevano i più forti. La dipendenza dalla droga è sempre stata e sempre sarà, oltre a un problema sanitario (effetti) un problema sociale (cause).

Leggo il meraviglioso libro Drug Use for Grown-Ups del professor Carl Hart, docente di psicologia alla Columbia University, appena uscito per Penguin. Si apre con la frase «Sono al quinto anno di uso regolare di eroina». Uno statement abbastanza forte. Hart sostiene che il tema della tossicodipendenza sia esclusivamente un effetto di una situazione socio-economica svantaggiata. Esclusivamente.

Hart non è un poeta beat o una rockstar; la sua area di ricerca è la neuropsicofarmacologia (si studia gli effetti sul cervello – e dunque su psiche e comportamento – dell’uso di sostanze). Hart assicura che il suo consumo regolare di droghe non gli crea problemi nella vita professionale; non occuperebbe il posto che occupa, se così non fosse. La sua tesi, in un campo in cui disinformazione e ipocrisia sono moneta corrente, è che la sofferenza causata dalle droghe non abbia nulla a che fare con i suoi effetti psicotropi, ma con il contesto sociale nel quale la si consuma e la criminalizzazione dello stesso.

Racconta di come la maggior parte dei consumatori di crack negli anni Novanta fosse bianco, mentre il il 90 per cento degli incriminati fosse, al contrario, nero. Nell’introduzione al suo libro scrive «…in più di 25 anni di carriera ho capito come la maggior parte dei consumatori non subiscono danni e che anzi il consumo ricreativo di droghe fa bene – alla salute e alla capacità di perseguire i propri obiettivi». In una intervista al Guardian critica duramente il National Institute on Drug Abuse, che finanzia il 90 per cento delle ricerche sull’uso ricreativo delle droghe. «Molti scienziati pensano che l’istituto sovrastimi abbondantemente l’impatto negativo dell’uso ricreativo delle droghe, ignorandone completamente gli effetti positivi. E lo fanno perché temono che i finanziamenti che ricevono sarebbero immediatamente azzerati se si mettessero a lavorare nella direzione opposta al mainstream».

Il tema, com’è ovvio che sia, è innanzitutto politico: «Si tratta di dove metti l’enfasi, non di un metodo empirico. Se le uniche discussioni sulle automobili riguardassero l’altissimo numero di morti che provocano, nessuno le userebbe, quando invece la quasi totalità delle persone che ogni giorno le usa arriva a destinazione sano e salvo». Un'altra osservazione banale ma ancora percepita come radicale è che confondiamo sempre l’abuso con l’uso; se lo facessimo con il vino, dice Hart, tutti quelli che ne bevono uno o due bicchieri a sera dovrebbero ricadere nella categoria degli alcolisti.

Hart è radicale, ma il suo discorso ha sostanza – e non è il primo a farlo. Per convincersene basta riportare quel che pensa delle droghe leggere: l’uso non responsabile di cannabis, in età puberale o adolescenziale, è rischioso. È provato che può indurre forti stati di ansia, e forme depressivo-paranoidi. La sua non è una posizione ideologica dunque, nonostante la radicalità delle sue posizioni; piuttosto, come rivendica più volte, empirica. E il fatto che abbia usato il suo corpo come test, assodato che non stiamo parlando di un folle, è indicativo. È arrivato a procurarsi una crisi d’astinenza da eroina, aumentandone il dosaggio per un breve periodo. Ha passato una notte d’inferno quando di colpo ha smesso, ma solo una notte. Non sei giorni, come dice la vulgata scientifica. E aggiunge che non si può morire di astinenza di eroina, mentre l’astinenza da alcol, per chi è assuefatto, è potenzialmente letale.

Insomma Hart sostiene che il metodo migliore per capire l’uso di droga è smettere di essere ipocriti, avere il coraggio di dire come stanno le cose, basandosi su un metodo totalmente empirico e non ideologico. Che rimane la via migliore, per ogni cosa. Ed è consapevole che, così come per guidare una automobile occorre passare un esame, lo stesso dovrebbe valere per l’uso di droghe, una volta legalizzato. Sta per trasferirsi in Svizzera, per continuare le sue ricerche (e, è lecito immaginare, a godersela con la sua capacità di divertirsi con le droghe senza eccessivi problemi).

Dove c’era il porfido ora c’è l’erba artificiale

Ma il tema centrale rimane quello delle comunità. Con tutti i suoi limiti – innanzitutto rispetto alle stigmate che facevano del drogato un escluso da evitare piuttosto che un escluso da aiutare – il raccontino edificante ma sincero col quale ho cominciato non significa che questo. Abbiamo bisogno di comunità; la scuola, il territorio, i gruppi di persone. È un tema che sta avendo molta risonanza anche in ambito psicanalitico, dove la pratica dell’analisi di gruppo, nonostante abbia faticato a imporsi nel nostro paese, è una delle risposte più adeguate alla solitudine alla quale ci troviamo costretti. La pandemia, va da sé, non ha fatto che acuire questa necessità.

Ho scritto una mail all’attuale parroco del mio ex-oratorio. Ho telefonato al numero indicato sul sito (il mio oratorio ha un sito!). Non ho ricevuto risposta. Sono andato a vedere com’è oggi, senza appuntamento con nessuno. Le colline di porfido non ci sono più, e nemmeno il campo di porticine. Ci sono campetti perfettamente piatti di erba artificiale e le porte con le reti (le reti le abbiamo sognate per decenni). È ovviamente vuoto, non ho idea di come sia stato in questi anni prima della pandemia. Poi passo da Via Lagrange – sembra uno showroom quello che ha sostituito la sezione del Pci – ma vabbè, sono passati cento anni, no?

Ripenso a Uno e a quando, vent’anni dopo la nostra chiacchierata sui gradini della chiesa l’ho rincontrato per caso. Non era cambiato. Ancora e sempre perfettamente rasato; un tossico che si faceva la barba tutti i giorni, che roba, signora mia! Aveva ancora addosso una delle sue t-shirt nonostante fosse inverno. Faceva il portinaio. Era felice, e anche io, tanto, di vederlo e immaginarlo a farsi due chiacchiere col professor Hurt.

 

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