Vincenzo Vinciguerra è in carcere dal settembre del 1979, quando a Roma si consegnò ai carabinieri. Per anni si era reso latitante in seguito alla condanna a 11 anni per il rocambolesco dirottamento di Ronchi dei Legionari: fu il primo a fini terroristici nella storia dell’aviazione civile italiana, costò la vita al suo camerata ordinovista Ivano Boccaccio.

E dal carcere in questi 43 anni Vinciguerra non è più uscito, se non per testimoniare a processi sulle stragi: piazza Fontana, la Questura di Milano, piazza della Loggia, la stazione di Bologna. Per quella di Peteano del 31 maggio 1972, quando un’autobomba uccise tre giovani carabinieri e ne ferì gravemente un quarto, nel 1984 fu proprio lui ad assumersene la responsabilità (caso unico nella storia dell’eversione di destra), con la conseguente condanna all’ergastolo nel 1987. Ergastolo a cui neppure interpose appello.

Lo studioso

Da allora, nella sua cella (l’ultima è quella di Opera, suo domicilio ormai da trent’anni) Vincenzo Vinciguerra ha ritagliato su di sé il profilo dello studioso. E il Vinciguerra-pensiero è contenuto in centinaia di pagine di verbali di interrogatori, di deposizioni in aula, di articoli e libri scritti dal carcere.

Tanto che il giudizio di magistrati, storici e giornalisti è pressoché unanime: per ricostruire la strategia della tensione degli anni Settanta non si può prescindere dalle conoscenze dello stragista di Peteano, che passando da Ordine nuovo ad Avanguardia nazionale (finché era latitante, tra l’altro anche in Spagna, Cile ed Argentina al seguito di Stefano Delle Chiaie) ha effettivamente conosciuto il fior fiore dell’estremismo nero.

L’irriducibile

Ora su Vinciguerra esiste anche un docufilm. Lo hanno realizzato Morgan Menegazzo (che ne è regista) e Mariachiara Pernisa, veneti di Rovigo, classe 1976 il primo e cinque anni più giovane la seconda. Si intitola L’irriducibile ed è stato presentato nei giorni scorsi al Torino Film Festival: un’anteprima a cui è seguita una proiezione a Milano, mentre altre sono in arrivo a Roma e in Puglia, a Bisceglie.

Nell’ora e venti minuti circa del filmato, oltre al protagonista, compaiono anche il magistrato Guido Salvini, lo studioso Aldo Giannuli (consulente di procure e commissioni stragi) e la giornalista Stefania Limiti, a definire ognuno dal proprio punto di vista l’irriducibile (è il caso di dirlo) alterità del personaggio Vinciguerra.

C’è un quarto intervistato, l’ex avanguardista Gaetano Sinatti, che con lui condivise anche la detenzione: sua è tra l’altro la firma del testo che introduce al lettore il primo libro di Vinciguerra, dal titolo programmatico Ergastolo per la libertà (sottotitolo altrettanto programmatico: Verso la verità sulla strategia della tensione), che risale addirittura al 1989.

A lungo Sinatti si è anche occupato del blog “I volti di Giano” che ospitava gli articoli di Vinciguerra, fino alla “rottura” della quarantennale amicizia tra i due: insopportabile, per l’ergastolano, un contatto tra Sinatti e l’organizzazione “Nessuno tocchi Caino” affinché quest’ultima si interessasse alle sue condizioni di salute in carcere.

Un carattere difficile

Perché Vinciguerra non è un tipo facile. Lo sanno bene numerosi giornalisti che, negli anni, hanno avviato con lui rapporti di corrispondenza, o che lo hanno incontrato in carcere: sono numerosi gli iniziali “innamoramenti” poi finiti malamente sempre per decisione dell’ex ordinovista.

Compreso chi scrive, autore di un libro su Vinciguerra e la strage di Peteano (L’ergastolano, uscito lo scorso maggio per Editori Laterza nel cinquantennale dell’attentato) il cui capitolo conclusivo consiste in una lunga intervista realizzata a Opera con Vinciguerra, dopo un carteggio che è proseguito anche successivamente all’incontro.

Il libro è stato poi recapitato in carcere all’intervistato che però, su un nuovo blog “amico”, ancora in agosto lo ha definito «un coacervo di menzogne, calunnie ed insinuazioni», con l’aggiunta che «la risposta, anche se ancora non è pubblica, a Morando, Casson e diffamatori vari è già pronta e risulterà convincente anche per gli scettici». Risposta di cui poi, però, nulla si è più saputo.

In guerra contro lo stato

Fu proprio l’allora giudice istruttore di Venezia Felice Casson a venire a capo dell’inchiesta su Peteano, dopo anni di incredibili depistaggi. E il secondo libro di Vinciguerra, La strategia del depistaggio del 1993, era interamente dedicato (si fa per dire) a lui: centinaia di pagine a senso unico contro Casson, definito senza mezzi termini depistatore. Ma è un libro che valse a Vinciguerra una inevitabile condanna per calunnia.

Tutto questo per dire che l’attendibilità di Vinciguerra va sempre vagliata. Lo dimostra una delle sue ultime deposizioni, nel 2019 al processo per la strage di Bologna in cui era imputato l’ex Nar Gilberto Cavallini (ma è stato sentito addirittura tre volte anche all’ultimo dibattimento, quello che vedeva alla sbarra Paolo Bellini), che gli ha fruttato un rinvio a giudizio per reticenza.

Vinciguerra infatti tutto è tranne che un collaboratore di giustizia: ritenendosi ancora oggi un soldato politico in guerra contro lo stato, dallo stato non accetta sconti di pena o benefici carcerari. E allo stato, che ritiene in sostanza orchestratore di tutte le stragi (eccetto quella di Peteano, a suo dire l’unica rivoluzionaria “pura”), non ritiene di rivelare tutto ciò che afferma di sapere.

La sua verità

Si capisce insomma perché una figura così particolare continui a catturare interesse. E da questo punto di vista il film di Menegazzo e Pernisa è un lavoro straordinariamente utile nel definire l’immagine che, di sé, Vinciguerra ha inteso dare in questi anni.

Frutto di incontri a Opera avvenuti nel 2019, L’irriducibile raccoglie infatti lunghe dichiarazioni dell’ergastolano senza alcuna traccia di contraddittorio. Così d’altra parte piace a lui, ripreso tra l’altro anche nella piccola biblioteca del carcere a pigiare i tasti di una Olivetti Lettera 35, con ai lati copie di Storia del fascismo di Pierre Milza e Serge Berstein e di Fascisti rossi di Paolo Buchignani, come un autentico storico al lavoro.

Ma attenzione: non si tratta di volontà agiografica, bensì di una precisa scelta autoriale. Spiega infatti il regista Menegazzo: «Si tratta della verità di Vinciguerra, di una sua auto rappresentazione, questo deve essere chiaro. Non eravamo interessati a una ricostruzione storica o giudiziaria della strage di Peteano, bensì a una narrazione che cercasse di penetrare la psicologia di un personaggio che da 43 anni, in carcere, per continuare a vivere ha dovuto per forza aggrapparsi a qualcosa».

Buio e fantasmi

Nel film, tra un monologo e l’altro di Vinciguerra (e il contrappunto degli altri intervistati già citati) scorrono immagini dei luoghi in cui, loro malgrado, la storia del paese ha fatto tragicamente tappa: e quindi la Banca Nazionale dell’Agricoltura, appunto Peteano (e pure Ronchi dei Legionari), la questura milanese di via Fatebenefratelli, il porticato di piazza della Loggia di Brescia, la stazione ferroviaria di San Benedetto Val di Sambro (dove il 4 agosto 1974 arrivò sventrato il treno Italicus), naturalmente quella di Bologna.

E sono tutte immagini girate in notturna: a significare il mistero che per decenni ha aleggiato su tutte le stragi. «Sono tutti luoghi ripresi oggi nella loro attualità – spiega Menegazzo – ad esempio in piazza della Loggia c’è un muratore che lava i propri arnesi in una fontanella. Luoghi attuali che però la gente ha dimenticato».

Un paese dunque indifferente, che ancora dovrebbe fare (ma non fa) i conti con i propri fantasmi. Il finale del film propone però le luci dell’alba sulla stazione di Bologna in cui il 2 agosto 1980 persero la vita 85 persone: a simboleggiare quello che, specie dopo l’inchiesta sui mandanti e il processo Bellini, sembra essere l’inizio della fine del buio su quella tremenda stagione.

Una guerra da solo

L’irriducibile si apre invece con Vinciguerra oggi, che un po’ sorridendo riascolta la domanda che gli pose nel 1990 Sergio Zavoli per La notte della Repubblica (di cui riecheggia frequentemente anche la musica, rieseguita): «Lei è qui con questi tre morti che non pesano sulla sua coscienza, perché l’eccidio fu compiuto per combattere lo stato, come lei dice. Quella guerra in realtà non c’è stata, e lei consuma qui, nella solitudine, l’illusione di averla combattuta. Che senso vuol dare, almeno, al suo futuro?».

E poi la sua risposta di allora, con tanto di filmato originale: «Sono in piedi, rivendico l’attentato di Peteano e continuerò con altri mezzi, i mezzi che mi sono consentiti nella situazione in cui adesso mi trovo, quella guerra che ho iniziato 27 anni fa e che non finirà mai prima che finisca io. Finirà nello stesso momento».

Poi ancora Zavoli, l’ultima domanda di quella incredibile puntata del 31 gennaio 1990: «Lei è consapevole che questa guerra continuerà a farla da solo?». Vinciguerra rispose con un largo sorriso: «Non è una buona ragione per smetterla». Sono passati altri 32 anni e siamo ancora lì.

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