Le streghe aziendali, con la cartellina sotto il braccio. L’auto coi fari accesi che rimpiazza il cavallone vero di Zeffirelli in scena. Il bric-à-brac distopico che pesa e ingombra in modo molto topico, marmi e bronzi e divani, porte e finestre e serrande, che neppure un secolo di sarcasmi sul teatro di interni borghesi è riuscito ad alleggerire, anche se alloggiato così Macbetto con le mani che grondano sangue pare un capufficio fantozziano.

Dietro, una sequela di computer screen autovarianti con immagini di città fra Metropolis e Matrix, conditi in salse nere, seppia, rossosangue e molti fumi: a effetto cielo corrusco, nubi nere, “era una notte buia e tempestosa”. Al culmine dello scavo negli abissi dell’anima e della follia lo spettro di Banco a guisa di gigantografia in bianco e nero, foto precisa e neppure sgranata della bella faccia di Ildar Abdrazakov, che sembra tratta dalla prima pagina del suo bùk. Figuratevi l’effetto di magia.

Chiudere gli occhi

Immaginate cosa resta del fiabesco, stralunato, spettrale eppure feroce e anche grottesco incantamento del male, che intanto fluisce nelle vene come champagne mutandosi misteriosamente in veleno, con la musica di Verdi, se chiudi gli occhi – ma devi proprio chiuderli.

Come nella scena del sonnambulismo di Lady Macbeth, dove l’orchestra «si riduce a un corno inglese, un clarinetto, un corno e gli archi in sordina» (Chailly): ma come fai ad accorgertene, terrorizzato come sei dal volo di trenta piani che la signora Netrebko minaccia ad ogni passo, brancolando su un cornicione a picco sul flusso ininterrotto di automobili che scorre sotto, inquadrato dalla telecamera a volo d’aquila? E lo spettatore a teatro come fa ad accorgersi di questa finzione esclusivamente televisiva?

(Brescia e Amisano/Uff Stampa / Agf)

A favore di telecamera

Ma se poi li riapri, gli occhi, ti chiedi stupito come sia possibile che più si moltiplicano gli effetti tecnologici a lanternone magico – o se preferite a caleidoscopio, sempre distopicissimo per carità – che la famosa teatralità verdiana si raggeli in una immobilità d’azione da cascare addormentati, anche se fra un atto e l’altro, raggianti, una platinata Milly Carlucci e un Bruno Vespa elegante nel suo completo nero-scarabeo, ti ripetono all’unisono che la gente viene alla Scala per provare emozioni, che diamine.

E come avvenga poi che la moltiplicazione di effetti-videogame confermi con implacabile tenacia tutti gli stereotipi cari ai nostri nonni, è un mistero, meno male così almeno un po’ ne resta (di mistero). Spadoni, pugnali e corone, ci sta, è un classico: Guerre stellari. Ma anche svenimenti col casqué ed espressioni cattivissime, con la signora Netrebko divisa fra lo sforzo di apparire Grimilde (precisa come nel fumetto) e quello di non sbagliare l’acuto, a implacabile favore di telecamera.

Il concetto di popolo

Perché là fuori c’è il popolo, ci dicono, e con la televisione ha questo vantaggio sulle élites teatrali: i primi piani. Questo popolo famelico di espressionismo trombone, verrebbe da pensare: ma sarà proprio vero?

Forse la signora Carlucci non ha letto né il verso immortale del Foscolo né la prosa vitriolica di Carlo Emilio Gadda (sul prolungato morire al sommo del virtuosismo canoro, specie nel ruolo del titolo), ma questo popolo sarà contento di farsi trattare tanto da scemo?

Perché invece Verdi ne aveva un concetto assai alto, se sapeva a tal punto innovare l’uso della voce e del colore da farci ascoltare (nel 1847) «qualcosa di mahleriano» nella scena detta della “processione” (Chailly). Ma come accorgersene, con tutta quella gente variopinta e agitata, alcuni in completi rosa, su fondo caleidodistopico.

(Brescia e Amisano/Uff Stampa / Agf)

Quel che rimane

Da ridere, sulla poltrona televisiva, ogni volta che il destino chiude un protagonista in ascensore (visto da dentro l’ascensore, con inquadratura condominiale, tipo Un posto al sole) e lo spedisce agli inferi. O ai piani superni del potere. E da piangere, quando su quella musica che ti canta dentro tutta l’infanzia e tutto lo stupore – niente, la foresta non c’è né accenna a muoversi incontro a Macbetto, come morte annunciata.

Ma in compenso la brutta fotografia di aceri autunnali appesa nel soggiorno del Potere cattivissimo va in fuoco, con tutti gli alberi che bruciano e ci ricordano il mutamento climatico e la nequizia ecologica del Potere. E pazienza se non c’entra niente. Molto attuale, ci spiegano Radiosa e Scarabeo.

Ecco, alla fine uno si chiede su cosa si fondi la gloria. Di un regista come quello (Davide Livermore, alla sua quarta prima scaligera), e del coro angelico senz’ombra neppure invisibile di dissenso critico, che di questa e in questa gloria vive, si muove ed è. E non rispondetemi, per piacere, “sul Potere”. Non cascateci, in trappola, anche voi.

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