Una domanda serpeggia da un po’ nel mondo degli scrittori, a denti stretti perché piena di timore: quand’è che torneremo agli eventi letterari dal vivo, alla dimensione carnosa e vitale in cui per presentare i propri libri bisognava vestirsi dalla testa ai piedi, prendere un treno, e non solo mollare la barretta di cioccolato e il telecomando e loggarsi a zoom?

C’è chi rimpiange o si oppone strenuamente, e chi invece non riesce proprio a immaginare di re-immettersi in quel mondo in cui toccava guardare in faccia il pubblico, annuire di fronte alle loro domande a volte stimolanti e genuine, altre aggressive o tendenziose, dispiacersi magari della distrazione di chi guardava il telefono o una finestra, anziché parlare autarchicamente a uno schermo in cui si vede solo chi ti presenta e ogni tanto la frase senza volto di una chat: uno schermo che un attimo dopo la presentazione verrà semplicemente chiuso restituendoci alla nostra casa, ai nostri gatti e alle nostre paranoie casalinghe, ben più gestibili di quelle causate dall’interazione con un mondo che, proprio come noi, è spesso preso da se stesso.

La virtualizzazione del libro

Quando l’e-reader ha cominciato a farsi strada nel mercato, mettendoci da allora di fronte alla costante scelta cartaceo/ebook ogni volta che desideriamo un libro, si è aperto un dibattito filosofico-esistenziale, sicuramente sottotono ma non per questo assente, su come sarebbe cambiata l’esperienza di lettura.

L’idea che la letteratura, che già è la forma d’arte più astratta, potesse diventare ancora più astratta, era ovviamente snervante: le parole non si toccano né hanno effetto immediato oltre la soglia della ragione, il senso di ciò che si legge è imbrigliato da un codice che solo la cultura, non l’istinto, può raggiungere, dunque la letteratura è già in deprimente svantaggio rispetto a tutte le altre forme d’arte, che al fruitore richiedono solo di esistere e di avere un apparato sensoriale.

Eppure il salto è avvenuto: leggiamo parole intoccabili racchiuse in libri intoccabili, ancora più remoti, luminescenti come stelle morte osservate da un pianeta lontano. Libri inaffidabili, che si spengono se si scarica la batteria, e che da spenti sono tutti uguali come se al mondo leggessimo tutti lo stesso libro. Alcuni di noi notano con disappunto che quest’esperienza di lettura ancora più rarefatta imprime meno il libro nella memoria, eppure non ci lamentiamo più di tanto, se non altro perché, dal basso delle nostre nuove nevrosi alla Marie Kondo mascherate da minimalismo zen, siamo sollevati dello spazio che ricaviamo sui nostri scaffali.

Così, mentre il covid privava noi scrittori del confronto con i lettori, nelle librerie e nei festival, e trasformava tutto in uno show narcisistico nel disordine delle nostre stanzette, avveniva un’altra trasformazione, un altro passaggio verso la virtualizzazione del libro, stavolta però passato inosservato. Perché certo, non avevamo alternativa, e soprattutto nessuno ha mai messo in dubbio che fosse transitorio. Ma, una volta tornati alle presentazioni reali, siamo sicuri che saremo quelli di prima?

Spazio invaso

Così come un libro reale, dopo la nascita dei kindle e dei kobo, ci pare più ingombrante, più fragile, più bello da tenere in braccio, cosa penseremo di noi stessi quando varcheremo di nuovo la soglia dei palchi e delle librerie in cui parlavamo delle nostre opere? Non sarà un po’ d’intralcio, la nostra presenza integrale, la nostra fisicità spesso stanca e frastornata? Saremo all’altezza del mondo, delle sue imprecisioni e delle sue aggressioni, delle sue brutali illuminazioni? Delle sedie vuote e delle sale piene, delle facce accese o annoiate, di tutte le magie e le frustrazioni che il confronto umano propone?

Per rispondere bisogna fare un passo indietro, rintracciando il momento esatto in cui, molto prima del covid, è stato possibile immaginare che lo spazio pubblico e il confronto umano potessero essere sostituiti da uno stormo di pixel. Byung-Chul Han sostiene che la nascita della comunicazione digitale abbia decretato la morte del senso di comunità: laddove il gesto di scrivere una lettera furibonda a un giornale, con tutta la noia di spedire e di attendere, è stato sostituito da un postare immediato sui social, la risposta impulsiva ha eliminato ogni necessità di confronto umano. Lo diceva anche Eco: il paradosso del premio Nobel e del cretino che finiscono per litigare su facebook, quando in un pub non si sarebbero mai guardati negli occhi.

L’autoreferenzialità e lo sfogo immediato degli impulsi hanno sostituito la bellezza del confronto umano: lo spazio condiviso, in cui la condivisione era stabilita da un’affinità, è stato sostituito dallo spazio invaso, dove è la lotta o il narcisismo a stabilire il senso dell’aggregazione.

E allora, ritornando alla domanda, come saremo noi scrittori quando dovremo riportare i nostri libri nel mondo? Sarà facile sostituire lo spazio autoreferenziale del nostro computer, abbandonare il rassicurante black mirror della call che finisce quando pigiamo un tasto?

Riadattare il nostro immaginario

L’altra notte, in sogno, ho formulato una risposta, naturalmente simbolica e surreale come può essere una risposta onirica. Ero ricoverata in un ospedale, reparto malattie infettive. Non avevo il covid, probabilmente era solo l'eco di un altro ricordo: di quando a Tokyo, qualche anno fa, mi sono beccata un virus misterioso da uno spiedino di carne cruda. Il ristorante era grazioso e modaiolo, con arredi interessanti e pubblicità giapponesi anni Sessanta che tappezzavano i muri, e di solito la bellezza mi rassicura e mi dà l'illusione che non sussista pericolo: così, incosciente, mi sono buttata sugli spiedini. L’indomani, non intimorita dal malessere esplosivo, ero andata a Hiroshima a vedere l'unico edificio sopravvissuto ai bombardamenti: una sala concerti nel cui scheletro sbucava la luna.

Vedere quella distruzione, e il modo in cui la bellezza la infiltrava, mi aveva trasmesso un’emozione meravigliosa, e il virus, obbediente, aveva rispettato il mio momento di malinconica contemplazione, esplodendo in tutta la sua veemenza solo al mio ritorno in Italia. Lì, battezzato “esotico”, considerato incompreso ed enigmatico, ha richiesto solo che mi ripulissero il sangue in ospedale e poi lasciato andare sono guarita da quel mistero.

Il virus che abbiamo oggi non è così educato ed è così diffuso da implicare una rivoluzione culturale. Nel sogno dovevo presentare il mio nuovo libro e la presentazione sarebbe avvenuta in ospedale. Andavo al piano di sotto, nel reparto eventi letterari. Lì, seduta con la flebo al braccio e il microfono nell’altra mano, presentavo il libro di fronte a un misto di pazienti e non, sani e malati. Alcuni c’erano fisicamente, altri erano connessi. Credo che il sogno risponda in qualche modo al quesito sul ritorno agli eventi letterari dal vivo.

Ci dice che il nostro immaginario, ormai così ospedaliero e digitalizzato, non deve risanarsi cercando le modalità di prima, ma adattarsi alle nuove forme di realtà che ci verranno proposte. In questa nuova era che mischia infezione e informazione, cominciata ben prima del covid, l’adattamento è l’unica forma di reazione possibile: non è detto che debba essere passivo, né aggressivo, può essere elegante e costruttivo, e sta già accadendo sotto i nostri occhi. Sta accadendo una specie di trasformazione del nostro pensiero.

Mentre zoom virtualizza al contempo i nostri libri e i nostri volti, come miraggi nel deserto pandemico, i nostri corpi stanno diventando più reali: costretti a pensare ai nostri organismi, alle distanze, a cosa toccano le nostre mani, ci accorgiamo finalmente della loro splendida, letteraria fragilità, ci accorgiamo che sono al contempo astratti come i romanzi e fragili come i libri di carta, e che ingialliscono ogni giorno anche se non ce ne preoccupiamo, e non è per il covid: è perché siamo vivi, che è la più splendida e inguaribile malattia.

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