Analizzando il comportamento e rendimento degli studenti di uno dei più prestigiosi programmi di MBA (Master in Business Organization) negli Stati Uniti, Leo Bursztyn (Universita’ di Chicago), Tom Fujiwara (Princeton) e Mandy Pallais (Harvard) avevano notato nel 2017 qualcosa di strano: a parità di rendimento scolastico, le studentesse partecipavano meno dei colleghi maschi alle discussioni in classe. Piu’ precisamente, a partecipare meno dei colleghi uomini erano le donne non sposate.

Gli studiosi osservarono anche che le studentesse nubili erano più propense dei maschi e delle colleghe coniugate a dichiarare che preferivano lavori, alla fine degli studi, che richiedessero meno impegno di tempo, al costo di un salario inferiore. Ulteriori analisi hanno portato alla conclusione che, per le studentesse single, la norma sociale quando si intraprende un programma di studio post-laurea, seppur volto a formare manager di industria e finanza, è di sfruttare l’occasione anche per trovare un “buon partito” da sposare. Per aumentare la probabilità impalmare un collega, conviene atteggiarsi un po’ da “moglie” e non solo da futura “donna in carriera”. Mostrarsi una potenziale buona moglie comporta, in questo contesto, non esprimere troppe opinioni e dichiararsi disponibile a piu’ tempo per la famiglia e a sacrificare per questo il lavoro. 

Le scoperte di questo studio sono solo una piccola parte dell’evidenza che negli ultimi vent’anni, combinando concetti e metodi di economia e psicologia, ha migliorato la comprensione delle origini e  persistenza della discriminazione, di genere e non solo, grazie all’identificazione di meccanismi cognitivi tanto elusivi quanto radicati nelle persone. Queste scoperte, a volte sorprendenti, si sono rivelate utili anche per definire politiche per l'equità e l’inclusione, e per affrontare le resistenze che si incontrano nel realizzarle. Quest’area di ricerca puo’ quindi contribuire a creare una società piu’ giusta, ma anche piu’ innovativa, produttiva e prospera, perché il talento e le motivazioni individuali non hanno alcuna relazione con l’aspetto fisico, il genere, o il colore della pelle. 


Pensiero e pregiudizio

I principali sviluppi delle scienze comportamentali degli ultimi quarant’anni anni sono stati resi popolari dalla pubblicazione di Pensieri Lenti e Veloci. In questo libro, il premio Nobel Daniel Kahneman teorizza che il nostro modo di prendere decisioni avviene con due modalità. Una modalità “lenta” e deliberata, che usiamo per le decisioni più complesse.

Questo sistema di pensiero usa parti del cervello che ci consentono di risolvere problemi in modo sistematico, ed é particolarmente necessario quando dobbiamo stabilire relazioni causali e giudicare o valutare il valore di una situazione. Per le piccole decisioni quotidiane, ci affidiamo invece a una forma di pensiero veloce, inconscio e automatico: ci permette, con la sua capacità di calcolare le probabilità che un evento si ripeta in modo inconscio e veloce, di imparare la grammatica del nostro linguaggio, di conoscere gli effetti delle emozioni sul comportamento, o riconoscere quali gruppi di persone ci piacciono e quali no. 

Poiché lavora per associazioni ripetute, tuttavia, il pensiero veloce non è capace di stabilire relazioni di causalità tra fenomeni e tende a farci semplicemente ripetere comportamenti già vissuti. Questa modalità di pensiero è responsabile dei nostri pregiudizi inconsapevoli, che secondo gli scienziati del comportamento spiegano molte forme di discriminazione sociale.

Quando incontriamo una persona le cui caratteristiche fisiche rimandano a un gruppo di cui abbiamo una certa immagine, attribuiremo automaticamente le caratteristiche del gruppo all’individuo e ne cercheremo conferma facendo subito caso a certi aspetti dell’interazione e non ad altri, allontanandoci sempre di più dalla capacità di giudicare la persona per le sue specificità.

Anche chi sostiene la piena parità di genere spesso dà per scontato che una donna in camice dentro un ospedale sia un’infermiera e non una dottoressa, che una ragazza in uno studio legale lavori come segretaria e non come avvocata, e che la piccola figlia di un amico preferirà una bambola a un modellino di automobile come regalo.

Anche una persona convintamente antirazzista spesso finisce per dare del tu a un uomo con la pelle scura anche se non lo conosce, cosa che magari non farebbe con una persona bianca. E il direttore delle risorse umane più inclusivo, davanti a due curricula di eguale valore, ma uno di Mohammed Hassam e l’altro di Michele Bianchi, per un colloquio probabilmente chiamerà’ il signor Bianchi. Questi stereotipi inconsapevoli agiscono non solo contro gli altri, ma anche contro noi stessi. 

Che fare?

Un approccio oggi molto popolare in tante organizzazioni, pubbliche e private, e’ di “educare” all’esistenza dei pregiudizi inconsapevoli. Anche se potenzialmente efficace nel breve periodo, evidenza recente mostra che gli effetti di questi programmi sono modesti. Il limitato successo, in effetti, e’ ulteriore prova di quanto pervasivi e “subdoli” siano i pregiudizi impliciti: anche se siamo consapevoli della loro esistenza e di poterne avere o subire, facciamo fatica sia a identificarli, sia a controllarli.

Un altro modo di affrontare il problema è l’introduzione di quote, ad esempio di genere, in vari organi decisionali, come I consigli di amministrazione delle imprese quotate in borsa, e la doppia preferenza nelle leggi elettorali locali e nazionali in Italia. Giovanna Faggionato ne ha parlato in queste pagine

Uno dei problemi delle quote e’ il “backlash” (contraccolpo), cioè la resistenza/vendetta da parte del gruppo che deve cedere il proprio privilegio e nel farlo si sente colpito nei propri diritti acquisiti. Le scienze comportamentali spiegano questa resistenza come una protezione della propria identità: vedere in posizioni importanti solo uomini o solo bianchi ha permesso di scambiare questa caratteristica fisica con un indicatore di abilità, una volta che persone di altro genere o colore ricoprano le stesse posizioni può sorgere il dubbio che esse siano state selezionate senza averne merito. Questo sospetto può generare ostilità che a sua volta danneggia le prestazioni individuali e organizzative. 

Se affrontare il tema del pregiudizio “di petto” e’ poco efficace o addirittura controproducente, quali alternative abbiamo?

Progettare l’inclusione

Gli interventi che sembrano essere più efficaci sono quelli che, invece di aggredire il problema direttamente, agiscono ad una fase precedente. Uno studio di Claudia Goldin (Harvard) e Ceci Rouse (Princeton) ha scoperto che aver introdotto audizioni “cieche”, cioè con un velo che copre l'identità’ del musicista, ha aumentato la presenza di donne nelle orchestre sinfoniche: non “vedere” chi suona porta a concentrarsi di più’ sul talento musicale che, seppur inconsciamente, sul genere del candidato.

Iris Bohnet (Harvard), autrice del libro What Works ha mostrato che la valutazione comparativa dei curriculum dei candidati a una posizione lavorativa riduce le differenze di genere nelle assunzioni; la tendenza psicologica al confronto sposta l’attenzione su dati oggettivi, riducendo l’influenza di pregiudizi impliciti pregressi.

Un altro studio ha trovato che rendere “automatica” la partecipazione a un processo di promozione, sempre lasciando la libertà di  non partecipare, elimina le differenze di genere tra i “contendenti”, mentre quando un individuo deve attivamente dichiarare la volontà’ di competere per una promozione, la partecipazione femminile é minore di quella maschile. 

La ricerca e pratica più recente ci propongono quindi numerose idee e soluzioni che invece di negare le distorsioni cognitive, le studiano e indirizzano per intaccare i privilegi legati al genere o al colore della pelle. Queste modifiche delle regole decisionali, spesso marginali e poco visibili, hanno quindi la capacità di limitare l’impatto dei nostri pregiudizi nascosti.

L’efficacia di questi interventi, inoltre, porta le organizzazioni e la società tutta a essere più diversa, equa ed inclusiva “per costruzione”. E l’esposizione a una crescente diversità senza palesi discriminazioni può rivelarsi un potente veicolo per sradicare anche i pregiudizi più difficili da controllare. 

Le opportunità sono quindi tante e gli strumenti molteplici, sia per le organizzazioni sia per le forze politiche che fanno dell’effettiva uguaglianza economica e sociale un valore e obiettivo prioritario.

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