C’è stato un breve momento, quando ancora la pandemia e i lockdown erano materiale da letteratura speculativa, in cui la stand-up comedy, equipaggiata del suo complesso di leggi non scritte, del suo codice di linguaggio e delle sue regole di ingaggio, aveva cominciato a strabordare dagli argini per investire un circuito di locali in tutta Italia dando la sensazione che presto si sarebbe trasformata in qualcosa di grosso.

Il lockdown

Non è andata proprio così. Nel febbraio del 2020 si è fermato tutto e i comici, come molti di coloro che fanno intrattenimento, si sono trovati a dover reinventare dalle fondamenta il proprio ruolo.

Molti hanno esplorato le vie del web e della trasmissione diretta per non restare con le mani in mano e gettare ponti di speranza verso un futuro tristemente incerto: c’è chi ha superato i lockdown con un podcast quotidiano come Francesco De Carlo e Francesco Lancia, ma anche Edoardo Ferrario e Luca Ravenna, che oltretutto nello stesso periodo hanno fatto uscire due comedy special; c’è chi ha trasmesso le proprie giornate in pressa diretta, come Michela Giraud; c’è chi ha provato a restituire lo spettacolo dal vivo attraverso una webcam, con risultati altalenanti, se non proprio deludenti; c’è chi, come Saverio Raimondo, si è inventato un late show e chi ha fatto fiorire la sketch comedy, come Valerio Lundini e Tay Vines.

Prima di tutto questo, però, c’era già Tintoria.

Comici per comici

Daniele Tinti e Stefano Rapone sono di quel genere che spesso viene definito “comici per i comici”: eccezionalmente abili e tecnicamente impeccabili, ma che per anni gli estimatori hanno dovuto andare a cercarsi alle serate nei club, perché difficilmente il loro umorismo trapelava al di fuori della dimensione delle line up affollate.

Non che la cosa gli importasse più di tanto. Il palco è il loro elemento naturale e sono talmente abituati a calcarlo che quando entrano in scena, appoggiano la birra o l’acqua in bottiglia sullo sgabello e prendono posto di fronte al microfono, sembra di assistere a un ritorno a casa dopo una lunga giornata di lavoro, piuttosto che all’inizio di un turno serale.

Tinti è uno che racconta storie: per arrivare alla punchline bisogna seguirlo per lunghi minuti nei meandri delle situazioni assurde e incresciose che spesso lo vedono protagonista, affidandosi alla certezza che, in fondo a un dedalo di cronache imbarazzanti o astruse, si riderà; Rapone è un one-liner, le sue battute sono come raffiche esplose con lentezza, precise come fendenti di bisturi, colpi sincronizzati spiazzanti e, proprio per questo, letali. Insieme si completano quasi naturalmente come parti complementari dello stesso ingranaggio.

Tintoria è stato formalmente inaugurato dal solo Tinti nel 2018, dalla cucina di casa sua a Roma. Voleva fare un podcast di interviste in libertà e ha cominciato a invitare i suoi amici a parlare con lui: comici, musicisti della scena indie romana, personaggi di strada.

Nove anni prima, lo stand-up comedian americano Marc Maron aveva fatto qualcosa di simile a Los Angeles, trasmettendo dal suo garage e parlando molto di sé, dei suoi gatti e del suo processo di ricostruzione di una vita dopo la disintossicazione dall’alcol, l’abbandono dei comedy club di New York e la rinnovata necessità di reinventarsi quasi da zero.

Invitando gli amici, i vecchi colleghi coi quali era rimasto in buoni rapporti e le persone che ammirava in quel complesso ecosistema perduto che è lo spettacolo hollywoodiano. Il suo progetto si chiama WTF ed è ancora, dopo 13 anni abbondanti, tra i più seguiti e apprezzati del genere.

Il fiorire dei podcast

Poi, complice l’isolamento forzato, sono venuti Sarah Silverman, Patton Oswalt, Nicole Byer; Jason Bateman, Sean Hayes e Will Arnett con SmartLess e praticamente chiunque afferisse minimamente alla comicità e vantasse contatti interessanti si è aggregato quasi con naturalezza alla lunga schiera di podcaster da poltrona che hanno riempito, non troppo in punta di piedi, le playlist e i canali di YouTube.

La dimensione del podcast ha cominciato a incarnare un naturale sfogo per chi aveva perso lo spettacolo dal vivo e i modi di declinare questa tendenza si sono moltiplicati.

«Eravamo orfani», mi ha detto parlando di questi argomenti il veterano Judah Friedlander, tra i più amati dal pubblico dell’underground comedy di oltreoceano, «Avevamo bisogno di un microfono e di qualcuno che ascoltasse cosa avevamo da dire».

E da quel silenzio innaturale, foriero di confusione, sono nati alcuni cult come gli spettacoli apocrifi dello stesso Friedlander diffusi soprattutto su Instagram, il fortunato Cachemire di Ferrario e Ravenna, Don’t Ask Tig, di Tig Notaro, Help!, di Natalie Cuomo, e Inside Voice, di Lake Bell. Altri sono passati, tramontati, dimenticati con la riapertura dei club e dei teatri, e forse è il corso che hanno meritato.

Precursori

In Italia, però, Tinti c’era già, e con lui nessun altro. Fa parte della sua natura: è un ricercatore, uno studioso della comicità in tutte le sue forme e, in grande misura, un divulgatore naturale. Rapone poi, che all’inizio è stato in ombra e ha fatto da supporto autoriale ma che da più di un anno è investito del ruolo di co-conduttore, non si potrebbe definire niente di meno che un fissato. La qual cosa aiuta, quando si ha l’ambizione di riempire, settimana dopo settimana, una puntata dopo l’altra.

Parlano, o sono così abili da farlo pensare, di tutto ciò che amano, senza troppo legarsi al momento o alla necessità di un gancio all’attualità. Tinti ci dà dentro col calcio e Rapone non si trattiene su fumetti e Giappone.

L’uno si dedica alla birra e l’altro alle tisane. Entrambi discutono di comicità e spettacolo con la passione di chi si è trovato a condividere un periodo dietro le barricate dei pionieri: quella stagione in cui la stand-up comedy era sulla rampa di lancio e tutti la cercavano, i comici si conoscevano tra di loro e c’era sempre l’occasione per un confronto e per uno scambio di intenti e di opinioni, nell’ambito di uno strano cartello, o cooperativa solidale per accedere alla quale bastava l’intenzione di far ridere.

Un mondo che conoscono come le proprie tasche e che Tintoria, come nessun altro prodotto del genere, ha il merito indiscusso di aver restituito assolutamente intatto a chi non si è mai trovato tra i tavolini di un club o nella platea di un teatrino romano o milanese, a chi ne ha malinconia e a chi non ne sa niente.

Fedele a sé stesso

Pur non facendone tecnicamente parte, insomma, nel panorama dei podcast “per necessità”, Tintoria è l’unico che ha saputo rimanere fedele all’intenzione primaria e a quelle atmosfere che tutti i comici e gli estimatori hanno sentito mancare quando lo spettacolo dal vivo sembrava destinato a finire per sempre. È l’unico vero podcast comico italiano.

Superate le cento puntate, passata la bufera e trovato un angolo di Roma nel quale registrare dal vivo, tornando ancora una volta al palco – quelle acque burrascose che Tinti e Rapone sanno navigare in bonaccia – gli ospiti hanno smesso di essere semplicemente amici e conoscenti, ma a livello di familiarità nulla sembra cambiato dai tempi della cucina di Daniele.

Da Zerocalcare a Massimo Ceccherini, passando per Margherita Vicario, Giacomo Bevilacqua, Gipi, Giraud, Ravenna, Maccio Capatonda, Aurora Leone e decine di altri, chiunque abbia qualcosa di divertente da dire è benvenuto e si trova, volente o nolente, calato in una conversazione cominciata cinque anni fa al bancone di un bar e ancora, naturalmente, in corso.

Tintoria non è un punto di arrivo, ma una colonna sonora per qualcosa che accade nella società dello spettacolo italiana, che si slega e segna il passo con semplicità, senza sovrastrutture indotte dal momento e dagli sponsor, con l’ambizione di commentare e intrattenere; di divertire, soprattutto. Come dovrebbe essere per tutte le trovate geniali.

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