Da anni ormai non pago più niente a prezzo pieno. Non solo non pago niente a prezzo pieno, ma intimamente giudico chi non ha sviluppato il mio stesso talento. «Che stupida» penso ogni volta che una mia amica dice di aver comprato un vestito nuovo in un negozio.

Sbuffo di fronte all’altrui concezione di saldi (20 per cento, pfff!) e un sorriso malvagio compare sulla mia bocca ogni volta che qualcuno mi fa un complimento per qualcosa che indosso. «Bello, dove l’hai preso?». La mia risposta è una e una sola e trasuda compiacimento: «Su Vinted» (segue annuncio del prezzo ridicolo).

Di madre in figlia

Vengo da una lunga linea di appassionate di moda e accumulatrici seriali, che mi hanno garantito fin dalla tenera età un armadio pieno di meraviglie usate. «Non darlo via, è delle sorelle Fontana» è la frase che ho sentito più spesso pronunciata sia da mia madre sia dalla sua, mia nonna, che non hanno mai buttato via niente, così come non buttavano via niente le loro antenate.

Nelle nostre case ci sono cassetti di bottoni, sacchetti di sacchetti e l’onnipresente scorta di naftalina, nostra migliore alleata. Ho camicie di cent’anni fa, vestiti che hanno visto due guerre, cappelli di lana grezza che hanno scartavetrato la fronte dei bambini di chissà quante generazioni prima di arrivare a scartavetrare la mia.

Questi reperti passano di madre in figlia, di casa in casa, di armadio in armadio, vengono rammendati, stretti, allargati, ma mai regalati né, dio ce ne scampi, buttati.

La mia principale motivazione per procreare è avere qualcuno a cui tramandare la mia eredità e se avrò figli maschi faranno meglio ad apprezzare lo shantung. Il più grande dramma nella nostra famiglia è stato realizzare che i miei piedi non si sarebbero fermati al 36, rendendomi ineleggibile per le centinaia di scarpe ereditate o acquistate da mia madre.

Come funziona

È mia madre, in realtà, la vera regina del prezzo scontato, perché alla determinazione di non comprare niente a prezzo pieno aggiunge anche un innato talento da tappetara: l’ho vista contrattare con vecchi e bambini, irremovibile, con il simbolo dei dollari al posto delle pupille.

Io, vergogna della mia famiglia, non sono mai stata capace, avendo purtroppo ereditato la tendenza paterna a rilanciare al rialzo per fare la figura della gran signora in qualsiasi negoziazione. Almeno finché non è stato inventato Vinted.

Su Vinted ognuno vende quello che vuole, al prezzo che vuole. Che non è una cosa rivoluzionaria, di per sé, ma si distingue per l’eccezionale facilità del tutto.

Chi vende fa il suo prezzo (che di solito è già molto basso, perché deve competere con decine di milioni di utenti) e chi compra, dopo aver messo un cuoricino per segnalare il proprio interesse, può fare un’offerta tramite un pratico pulsante che risolve tutti i problemi di una come me, che si stranisce a contrattare di persona.

L’offerta non può essere più bassa del 30 per cento, una buona pratica di civiltà che tuttavia qualcuno raggira scrivendoti in privato e proponendo cifre scandalosamente basse.

Chi vende e riceve un cuoricino di preferenza può decidere di fare un’offerta all’interessato, ma un cuoricino può rappresentare anche un interesse blando o un segnaposto nella sempre efficace tecnica dell’avvoltoio (tenere d’occhio un articolo per mesi e piazzare l’offerta quando il venditore, ormai stremato dall’attesa, è disposto ad accettare qualsiasi prezzo).

Per rendere la comunicazione ancora più facile, la chat di Vinted ha un traduttore simultaneo integrato, che permette di scrivere ognuno nella propria lingua. Se la transazione si conclude con un acquisto, il sistema produce un’etichetta di spedizione e il tuo straccio di Zara può partire verso la sua nuova casa.

Il mio affare

Gli stracci di Zara vanno per la maggiore, io stessa ne ho venduti diversi in un momento di liberazione dal poliestere. Più una cosa fa schifo e costa poco, più velocemente la venderai, è la dura legge del mercato di Vinted.

Chi compra su Vinted vuole spendere poco, e chi vende vuole liberarsi l’armadio nel minor tempo possibile. E così svende, non per guadagnare tre euro su un maglione di acrilico, ma per quel piccolo brivido che percorre la schiena di chiunque quando ci si sente di aver fatto un affare. E questa è la storia di come ho comprato un vestito di Christopher Kane da ottocento euro a trentacinque (pfff, 20 per cento).

L’etica

Per camuffare la psicosi che mi ha portato a passare una quantità incalcolabile di ore a vagare su quest’app (dove ormai compro tutto: vestiti e scarpe, libri, tovaglie, ceramiche Ginori), ho elaborato un nuovo tratto della mia personalità che ha convenientemente a che fare con la sostenibilità e l’ecologia.

Tiro pipponi sullo sfruttamento dei lavoratori nel fast-fashion, mi scandalizzo per la produzione smodata delle catene di abbigliamento, ostento conati di vomito solo a sentire il nome di Shein. Ma lo sai quanti secoli ci vorranno per smaltire tutte queste fibre sintetiche? Questa camicia ha visto due guerre! Ricordo a tutti con la bava alla bocca.

Questa passione per il riciclo è l’unica malattia che mi fa sembrare una persona dotata di un’etica e quindi mi sento legittimata a rompere i coglioni, anche perché in società regge molto meglio della mia altra falsa battaglia, quella che mi vede sfornita di patente perché non voglio inquinare.

Nel frattempo su Vinted

Va detto che Vinted non è per tutti, ci vuole molta pazienza per frequentarlo. Per trovare quello che stai cercando, certo, per aspettare che qualcuno compri i tuoi stracci, certo, ma soprattutto per avere a che fare con gli altri, che come su ogni social che sia mai stato inventato anche qui danno il peggio di sé.

Pretendono sconti su scarpe da quattro euro, chiedono foto dei piedi, usano frasi come “questo abito scintilla con la discrezione delle stelle” (abito che ho effettivamente comprato, nonostante l’afflato poetico della venditrice).

Di questa follia offre un assaggio un profilo di Instagram piuttosto esilarante che si chiama @nelfrattemposuvinted, che raccoglie le interazioni più assurde che si consumano in questo mercato selvaggio: “venderesti a 35? Dicembre è un mese difficile”, “scambi con un cesto di funghi prataioli?”, “gonna di seitan” e altri deliri rendono l’esperienza di Vinted dolceamara, ma mai noiosa.

La vestibilità

Come ormai abbiamo imparato grazie alle invenzioni di Mark Zuckerberg, le inibizioni spariscono quando si interagisce con un telefono in mano, ed è un attimo che si diventa persone orribili.

Io stessa ormai mi rifiuto di comprare un paio di braghe senza aver prima chiesto le misure del girovita, per non parlare della mia altra ossessione (anche questa ereditata da mia madre), quella per le composizioni. Nessuno merita il mio sdegno più di chi spaccia per seta il raso di poliestere, mentendo sapendo di mentire, una disonestà su cui non sono disposta a soprassedere.

A mettere a dura prova la mia pazienza c’è anche l’abuso del termine “vestibilità”, parola jolly in qualsiasi annuncio, spesso abbinata a “ottima”. Cosa significa ottima vestibilità? Ma poi cos’è la vestibilità e come fa a essere ottima? E perché si applica a ogni capo di abbigliamento? Vuol dire che sta bene addosso? Ma come può essere un concetto universale quando è chiaramente del tutto soggettivo?

Queste e altre domande mi assillano ogni giorno, mentre ogni notte mi giro e mi rigiro penso a quelle maryjane di Prada che mi sono lasciata scappare. La striscia verde che recita “venduto” mi annebbia la vista, conducendo infine all’inevitabile, imprescindibile interrogativo: ma il girovita quanto misura?

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