A Complete Unknown, un film molto discusso per una storia fondamentale della musica e del costume del Novecento
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
È ormai fuori da un mese eppure non smette di incendiare il dibattito il film di James Mangold a proposito di Bob Dylan, A Complete Unknown, tratto liberamente dal volume Dylan Goes Electric!: Newport, Seeger, Dylan, and the Night That Split the Sixties in cui l’ormai consacrato nuovo idolo del cinema pop, Timothée Chalamet, ha il tanto arduo quanto onorevole compito di interpretare proprio Mr. Zimmerman alle prese con l’approdo a New York e con la sua successica rivoluzione sonora e il superamento del folk delle origini.
Fa una scelta interessante e precisa Mangold, a monte, cioè quella, appunto, di partire dal libro di Elijah Wald per cercare di raccontare perché Bob è diventato Dylan, scegliendo quindi di non sposare la formula più abusata di biopic, quella che parte dall’infanzia e dalle radici (con il cote di madri e padri maltrattanti o incapaci di intercettare gli smaccati talenti della prole, lasciando in eredità traumi vari ed eventuali) ma di soffermarsi invece su un punto precisissimo della storia umana e artistica di Dylan, cioè la famosa “svolta elettrica”, il passaggio da una musica che incrocia e si intreccia al folk, fino alla pubblicazione di materiale più aperto, il suo rock che include blues, folk, pop, rock’n’roll decentrandoli tutti.
Un film di canzoni
Dopo aver mostrato con una costruzione certosina sin dalle primissime scene la fascinazione di Dylan per la musica elettrica, da Little Richard ai Kinks, il film si interrompe alle porte dell’uscita sul mercato del secondo album elettrico dello stesso Dylan cioè Highway 61 Revisited (1965) uscito dopo il primo capitolo dell’ideale trilogia che si concluderà con Blonde on Blonde e cioè Bringing it all back home. È il momento in cui per l’artista inizia un percorso di assoluta autonomia rispetto alla domanda di critici e pubblico, segnando il punto di origine di una postura, quell’intransigenza che gli conferirà a vita lo status in cui il mito precede l’uomo, che resta invece, appunto, un completo sconosciuto.
Non solo non era semplice, era davvero quasi impossibile riuscire a interpretare Bob Dylan senza sembrare ridicoli e macchiettistici e invece Chalamet sorprende e dopo anni di studio (ha più volte dichiarato di aver lavorato al personaggio per cinque anni, utilizzando tutto il tempo pandemico nell’esercizio) fa molto bene: veste i panni del cantautore ben oltre l’enfasi e i picchi interpretativi, lo fa cioè non solo attraverso il cantato e la parola di Dylan ma anche, specialmente, negli spazi vuoti, con il corpo pigro, lo sguardo assente e riflessivo spaventosamente somiglianti al vero.
Il lavoro sulla voce è magistrale, non c’è imitazione ma tensione, non c’è replica ma una vera e propria attitudine vocale che trova ampio spazio nel modo in cui la musica entra nel film a partire da un lavoro importante e diretto sulla stessa sceneggiatura: A Complete Unknown è un film di canzoni eseguite più per intero che per frammenti, è un film di canzoni senza essere un musical; qui i brani, i testi di Dylan, servono a definire passaggi storici all’interno del racconto: accade per esempio in due momenti, con Dusty Old Dust di Woody Guthrie o con l’approdo sul palco del Newport Folk Festival - lo spazio deputato a traghettare l’indipendenza di Dylan nel mito che sarà - con The Times They Are A-Changin’. Musica ultradiegetica, insomma, che va oltre il suggerimento e la connotazione di spazi e tempi assumendo un vero e proprio senso lirico significativo e utile all’evoluzione del discorso all’interno del film.
Nel libro a cui Mangold si è ispirato, un ruolo dominante è quello di Pete Seeger che interpretato in modo straordinario da Edward Norton qui assume un sembiante e una posa assai credibile a metà tra il paterno e il pretesco, un personaggio che ricorda quello che nell’iconografia pop è l’angioletto sulla spalla dell’eroe mentre dall’altra parte, il ruolo del diavoletto, è finzionalmente e perfettamente indossato da Johnny Cash; il country singer elettrico nato a cui Mangold aveva dedicato un altro biopic nel 2005, Walk the Line, è qui lo stimolo costante all’esondazione nella più assoluta libertà espressiva, la spinta alla franchezza del sé, al superamento delle aspettative esterne e dunque estranee.
Volendo trovare un difetto reale al film ci si deve soffermare sulla scrittura fantasmatica, opaca ed eseguita definendo contorni e sagome, più che figure vere e proprie, di Joan Baez e Suze Rotolo. Interpretate rispettivamente da Monica Barbaro ed Elle Fanning, le due donne a cui Bob Dylan si accompagnò nella prima parte della sua carriera risultano bozze di personaggi mai scritti.
Non emerge, se non in modo frammentario e appena tratteggiato, la loro importanza per il Bob Dylan artista benché siano state due figure diversamente fondamentali. Suze/Sylvie/Elle Fanning, in particolare, che Dylan stesso ha domandato avesse un nome di fantasia, risulta una scelta attoriale non azzeccata, una bellezza pulita e chic che sarebbe stata bene, al massimo, nella swingin’ London o nella Parigi yeye dei 60s. In lei, di Rotolo, manca tutto il lato più sporco, iperreale del Village, l’antidivismo assoluto che accompagnava tutti, in quella fase, tra i sottoscala e i basement in cui si faceva la storia del quartiere e del mondo fuori quasi senza saperlo.
Testo ed emozione
Siamo certamente davanti a un prodotto di Hollywod con tutto quello che questo significa in termini di scelte e di tracciato, di architettura stessa del film, ma siamo anche davanti a due ore e venti minuti commoventi, coinvolgenti a tal punto da far dimenticare anche alla tribù degli spietati dylaniati di professione (come si chiamano i fan sfegatati di Dylan ormai da generazioni) le imprecisioni filologiche. Il film si abbandona infatti alle proprie libertà storiche pur ricostruendo in modo accorato e accurato il mondo vibrante dei palchi e delle strade che Dylan ha attraversato.
A Complete Unknown è utile, oltretutto, qualora ci si scordasse di raccontare come si deve ai più giovani questa storia vera e fondamentale della musica e del costume del Novecento, qualcosa che ancora oggi non accenna ad arrestarsi e placarsi, appunto, anche grazie ai livelli di inconoscibile che continua tenacemente a conservare. Il film ha ricevuto otto nomination ai Premi Oscar 2025 tra cui quelle per il Miglior Attore Protagonista a Chalamet e Non Protagonista a Norton, al Miglior Sonoro, ai Migliori Costumi e alla Migliore Sceneggiatura (a Jay Cocks e allo stesso James Mangold), tuttavia, al di là di come finirà la nottata all’Academy, la forza di questo lavoro è da ritrovare altrove, forse in quel postulato di Pier Vittorio Tondelli secondo cui «l’unico spazio che ha il testo per durare è quello emozionale» perché la scrittura emotiva è in grado di esprimere «le intensità intime ed emozionali del linguaggio», quelle che legano a sé l’uditorio dei lettori o degli spettatori e che non separano l’intensità dalla ricerca linguistica ricercando con sapienza e cuore un’ottica popolare, quella che, in questo caso, appena usciti dalla sala, fa venir voglia a tutti di correre a casa ad ascoltare Bob Dylan.
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