Se vogliamo qualche buona notizia sui diritti riproduttivi, oggi dobbiamo cercarla in America Latina: non solo per quanto riguarda il diritto all’aborto, ma anche per avanzatissime normative sulla violenza ostetrica. I primi stati che hanno riconosciuto il maltrattamento durante il parto come reato sono infatti il Venezuela (2007), l’Argentina (2009), l’Uruguay (2017) e alcuni Stati del Messico e del Brasile (2014-2017). Anche l’OMS nel 2014 e il Consiglio d’Europa nel 2019 hanno tracciato linee guida sulla violenza ostetrica, nel quadro normativo della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne.

Violenza e tecno-ostetricia

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In Italia se ne parla sempre di più, ma nulla di concreto è stato fatto nonostante una proposta di legge del 2016 (pdl Zaccagnini n. 3670). Tuttavia, il 21 per cento delle donne che hanno partorito tra il 2003 e il 2017 dichiara di aver subito violenza durante il parto e il 6 per cento dichiara di non volere più figli a causa di questi traumi (fonte Ovoit/Doxa). Il dibattito italiano sulla questione in realtà era già stato aperto dall’inizio degli anni Settanta, quando il Movimento di lotta femminista di Ferrara pubblicò l’opuscolo Basta tacere! corredato da testimonianze di violenze relative ai servizi riproduttivi (quindi anche all’aborto, allora clandestino).

Una più recente campagna promossa dall’Osservatorio italiano sulla violenza ostetrica, lanciata sui social con lo stesso hashtag #bastatacere, oltre alle violenze verbali, all’infantilizzazione e al sessismo, ha denunciato soprattutto gli eccessi della medicalizzazione ospedaliera: episiotomie imposte, cesarei non indispensabili, uso di forcipe, ricoveri prolungati.

La richiesta del riconoscimento della violenza nel percorso della gravidanza e del parto sembra soprattutto orientato dalla ricerca di un ritorno a metodi meno intrusivi, che rispettino lo svolgimento fisiologico del parto senza «patologizzarlo» e medicalizzarlo. Negli ultimi decenni la reazione all’ospedalizzazione del parto ha infatti riconosciuto la violenza ostetrica quasi esclusivamente negli abusi di intervento medico, con uno sguardo molto critico nei confronti della «tecno-ostetricia» e di tutto ciò che interferisca con il «naturale» svolgimento del travaglio, mentre si insiste molto meno sul danno che può derivare dalla mancanza di intervento, come nel caso della negazione dell’anestesia, nonostante le direttive dell’OMS riconoscano il reato di violenza ostetrica anche laddove si rifiuti l’offerta di «adeguata terapia del dolore».

È il caso anche dell’unica proposta di legge italiana sul tema, il già ricordato pdl Zaccagnini del 2016. La proposta riguardava infatti al tempo stesso la «tutela di diritti della partoriente e del neonato» e la «promozione del parto fisiologico», come se il parto vaginale non operativo e senza anestesia fosse idealmente il meno violento. Questa predilezione per il parto cosiddetto «naturale» è del resto in linea con una ri-naturalizzazione di tutto ciò che riguarda la nascita e le prime cure del neonato, spesso proposta dalla stessa cultura ostetrica e pediatrica, in contrasto con gli sforzi femministi degli ultimi decenni volti a de-naturalizzare la maternità e a mostrarne la costruzione culturale e simbolica.

Come scriveva Adrienne Rich in Nato di donna, nel 1976, la maternità non è solo un’esperienza ma anche un’istituzione. Proprio la sottolineatura di quanto sia articolato il processo culturale che accompagna il divenire madre ha contribuito a smascherare i modi in cui la società organizza materialmente le diseguaglianze nei rapporti tra i sessi attorno alla riproduzione biologica. La naturalità della generazione è usata infatti da sempre come fondamento per assegnare alle donne il ruolo di nutrici esclusive e confinarle quindi alla sfera domestica. L’opposizione tradizionale tra maternità biologica e paternità sociale si trova invece minacciata dai tentativi di sottrarre la riproduzione alla semplice fisiologia, e di integrare il ruolo materno in sfere culturali, scientifiche, tecnologiche e simboliche più sofisticate.

Fordismo naturalista

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Alcuni studi ispirati alla controffensiva naturalista degli ultimi decenni parlano addirittura di «parto tecnocratico», mettendo sullo stesso piano episiotomia, tagli cesarei ed epidurale, denunciate come tecniche funzionali al modello fordista ormai in vigore negli ospedali pubblici, in cui le partorienti sarebbero gestite solo in funzione della disponibilità delle infrastrutture e dei turni del personale. In realtà il contenimento dei parti cesarei o la carenza di offerta di parto anestesia sembra tutt’altro che ispirata a logiche anti-fordiste.

All’origine della proposta di legge italiana sulla violenza ostetrica del 2016 vi è infatti un’inchiesta sui parti cesarei condotta nel 2013 dall’allora ministro della Salute Balduzzi, motivata non solo dal nobile obiettivo di tutelare il diritto alla salute delle donne, ma anche dall'esplicita preoccupazione per il danno all’erario costituito dall’alto numero di cesarei, soprattutto in alcune regioni (in Campania sfioravano allora il 60 per cento, contro una media nazionale di poco più del 30 per cento).

L’intento di promuovere il parto «naturale» e le pratiche connesse – ad esempio il rooming-in e l’allattamento al seno – sembra insomma altrettanto bene integrato nel modello di produttività corporativa delle aziende sanitarie quanto le pratiche «medicalizzanti» che oggi vengono scoraggiate: non solo cesarei e anestesie epidurali, ma anche il servizio di nido dei reparti di ginecologia, fatto sparire dagli anni novanta con il pretesto di non interrompere il «naturale» attaccamento tra madre e neonato – il cosiddetto bonding, moda pediatrica degli anni ’70 i cui benefici hanno scarsa evidenza scientifica –, sottraendo così alle madri che ne sentissero la necessità la possibilità di riposare qualche ora dopo il travaglio.

Nascite snaturate

Molte donne parlano poi di violenza ostetrica anche per scarsità o mancanza di medicalizzazione, ad esempio per il fatto di aver visto negata la loro richiesta di anestesia o di cesareo, o addirittura per aver subito cesarei a vivo. Altre riferiscono di aver vissuto imposizioni umilianti di altre pratiche all’insegna della naturalità, come il già ricordato bonding o l’allattamento al seno, che sono proposte senza alternative nella maggior parte degli ospedali, generando talvolta casi di violenza psicologica che non sono però tematizzati dalle linee guida sulla violenza ostetrica.

Sarebbe insomma opportuno riconsiderare con più ampiezza e imparzialità gli ostacoli culturali all’autodeterminazione delle donne, sia che essi provengano dall’imposizione di interventi medici eccessivi, sia che derivino dall’imposizione del «naturale» a tutti i costi, senza ammantare quest’ultimo di purezza e superiorità per minimizzare e far tacere l’esperienza delle madri «snaturate».

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